L’autunno. Quella meravigliosa stagione in cui le foglie cambiano colore, l’aria si fa frizzante e i CrossFitter di tutto il mondo decidono che è il momento perfetto per torturarsi pubblicamente in nome della beneficenza. Benvenuti all’annuale evento “Beers and Burpees”, o come a me piace chiamarlo: “Come Rovinare un Perfetto Sabato di Ottobre”.
Quest’anno il nostro amato/odiato Box ha deciso di unirsi alla follia collettiva, partecipando all’evento di beneficenza che sembra essere stato concepito da un sadico con un debole per la birra artigianale. L’idea è semplice: fare un numero osceno di burpees, bere birra, raccogliere fondi per i bambini bisognosi. Nobile causa, esecuzione discutibile.
Quando il nostro coach, che chiameremo affettuosamente “Il Bastrado”, ha annunciato la nostra partecipazione, ho sentito un brivido corrermi lungo la schiena. Non era eccitazione, era puro terrore mascherato da spirito competitivo.
“Sarà divertente!”, ha detto con quel suo sorriso sadico che ormai conosciamo fin troppo bene. “Faremo squadra, ci divertiremo e alla fine ci sarà la birra!”
Certo, la birra. Il miraggio alcolico che ci avrebbe spinto oltre i nostri limiti fisici e mentali. Perché apparentemente, l’unico modo per convincere un gruppo di adulti, teoricamente sani di mente a fare centinaia di burpees sotto il sole di ottobre è la promessa di alcool a fine tortura.
Il giorno dell’evento è arrivato fin troppo presto. Mi sono svegliato all’alba, chiedendomi per l’ennesima volta perché diavolo mi fossi iscritto a questa cosa. Ah già, per solidaroietà e un falso senso di cameratismo. Le stesse ragioni per cui la maggior parte di noi si è iscritta al CrossFit in primo luogo.
Arrivato al Box, lo scenario era già quello di un campo di battaglia pre-conflitto. Gente che si scaldava con una frenesia da tarantolati, altri che fissavano il vuoto con sguardo vacuo, probabilmente riconsiderando tutte le scelte di vita che li avevano portati a quel momento.
Il Bastardo era in gran forma, saltellando da una parte all’altra come un bambino iperattivo il giorno di Natale. “Ragazzi, siete pronti a spaccare?”, ha urlato con un entusiasmo che in quel momento ho trovato profondamente irritante.
No, cazzo, non ero pronto a spaccare. Ero pronto per un cappuccino e magari una passeggiata tranquilla nel parco. Ma ormai ero lì, circondato da una folla di fanatici del fitness pronti a immolarsi sull’altare dei burpees. Non c’era via di fuga.
Il workout era strutturato in maniera crudelmente semplice: 30 minuti di burpees a staffetta. Ogni squadra aveva una corsia e doveva fare quanti più burpees possibile nel tempo dato. Un membro della squadra lavorava mentre gli altri “riposavano”, termine usato molto liberamente in questo contesto.
Alla partenza, l’energia era alle stelle. La gente urlava, si incitava a vicenda, l’aria era carica di adrenalina e ottimismo. Ingenui bastardi. Non sapevano cosa li aspettava.
I primi cinque minuti sono volati. Tutti erano ancora freschi, sorridenti, convinti di poter conquistare il mondo un burpee alla volta. Io, da veterano cinico qual sono, sapevo che era solo l’inizio. La vera sfida sarebbe arrivata dopo, quando i muscoli avrebbero iniziato a bruciare e il fiato a mancare.
Al decimo minuto, i sorrisi hanno iniziato a vacillare. I cambi tra i membri della squadra si facevano più frequenti, i respiri più affannosi. Ho visto lo sguardo terrorizzato di un novellino che probabilmente si stava chiedendo se fosse troppo tardi per fingersi malato e andarsene. O fingersi morto.
A metà workout, l’inferno si è scatenato. La gente ansimava, sudava, imprecava sottovoce o ad alta voce, nel caso dei meno educati. I burpees, una volta eseguiti con grazia ed energia, ora assomigliavano più a delle foche spiaggiates che cercano disperatamente di tornare in acqua.
Io? Beh, io ero nel mio personale girone dantesco. Ogni discesa a terra era una battaglia contro la gravità e il buon senso. Ogni salto era una sfida alle leggi della fisica e alla mia dignità. Ma continuavo, spinto da un mix di orgoglio mal riposto, spirito di squadra e la promessa di quella dannata birra alla fine.
Gli ultimi cinque minuti sono stati pura sopravvivenza. Il tempo sembrava essersi fermato. Ogni secondo durava un’eternità. La mia mente vagava, cercando di distrarsi dal dolore e dalla fatica. Ho avuto visioni mistiche. Ho visto la luce in fondo al tunnel, ma penso che fosse solo il riflesso del sole sul pavimento sudato del Box, ma per un attimo ci ho creduto davvero.
Quando finalmente è suonata il beep della salvezza, c’è stato un momento di silenzio surreale. Poi, come un’onda, si è alzato un boato di gioia, sollievo e dolore. Gente che si abbracciava, altri che crollavano a terra, qualcuno che correva o meglio, si trascinava, verso gli spogliatoi.
Il Bastardo, ancora incredibilmente energico, saltellava tra le squadre congratulandosi e prendendo nota dei punteggi. Come facesse ad essere così pimpante dopo 30 minuti di inferno è un mistero che ancora oggi mi tormenta. Sospetto fortemente l’uso di sostanze illegali o un patto col diavolo.
Poi è arrivato il momento che tutti aspettavamo: la birra. Mai nella mia vita una bevanda è stata così desiderata e apprezzata. Quel primo sorso è stato come un’epifania, un momento di pura beatitudine che ha quasi fatto dimenticare i 30 minuti di tortura appena vissuti.
Mentre sorseggiavo la mia birra, guardandomi intorno, ho avuto modo di riflettere sull’assurdità della situazione. Eccoci qui, un gruppo di adulti o presunti tali, sudati, doloranti, esausti, che celebravano il fatto di aver passato mezz’ora a fare un esercizio che la maggior parte della gente sana di mente eviterebbe come la peste. E per cosa? Per beneficenza, certo. Ma anche per quel senso di appartenenza, quella strana forma di cameratismo che solo il dolore condiviso può creare.
Il CrossFit e eventi come questo, hanno questa incredibile capacità di trasformare persone normali in masochisti sorridenti. C’è qualcosa di profondamente distorto, ma anche stranamente bello, nel vedere gente di ogni età e background unirsi per una causa comune, anche se questa causa implica torture auto-inflitte.
Mentre l’adrenalina scemava e la birra faceva effetto, le conversazioni intorno a me si facevano sempre più animate. C’era chi già parlava del prossimo evento, chi giurava di non voler mai più fare un burpee in vita sua anche se sappiamo tutti che è una bugia, chi faceva progetti per una cena luculliama per recuperare le calorie perse.
Il nostro gruppo, ancora ansimante ma stranamente euforico, si è riunito per una foto di rito. Sorrisi stanchi ma soddisfatti, magliette zuppe di sudore, birre in mano. Un’immagine che cattura perfettamente l’essenza di questi eventi: dolore, orgoglio, cameratismo e una buona dose di follia.
Mentre guidavo verso casa, corpo dolorante ma spirito stranamente sollevato, ho riflettuto su quanto sia bizzarra questa comunità di cui faccio parte. Siamo un gruppo di masochisti funzionali, sempre pronti a spingerci oltre i nostri limiti per… cosa esattamente? Fitness? Certo. Salute? Forse. La sensazione di aver conquistato qualcosa? Probabilmente.
Ma c’è di più. C’è quel senso di appartenenza, quella strana fratellanza che si crea tra persone che hanno sofferto insieme. C’è l’orgoglio di aver fatto qualcosa che la maggior parte delle persone considererebbe folle. E c’è la consapevolezza che, nonostante tutto, torneremo a farlo. Ancora e ancora.
Perché alla fine, eventi come “Beers and Burpees” non riguardano solo il fitness o la beneficenza. Riguardano la sfida personale, il superamento dei propri limiti, il fare parte di qualcosa di più grande di noi. Anche se quel “qualcosa di più grande” implica fare un numero osceno di burpees sotto il sole di ottobre.
Tornato a casa, mi sono lasciato cadere sul divano, ogni muscolo del mio corpo che urlava vendetta. Ho chiuso gli occhi, ripensando alla giornata appena trascorsa. Al dolore, alla fatica, ai momenti di disperazione. Ma anche all’euforia della fine, alla soddisfazione di aver contribuito a una buona causa, al senso di appartenenza.
E sai cosa? Nonostante tutto, nonostante la sofferenza e la fatica, nonostante mi fossi ripromesso mille volte durante quei 30 minuti di non farlo mai più… so già che l’anno prossimo ci sarò di nuovo. Perché è questo che facciamo noi CrossFitter. Ci lamentiamo, soffriamo, malediciamo ogni burpee, ma alla fine torniamo sempre per farne ancora di più.
Siamo una specie a parte, noi del CrossFit. Masochisti funzionali, come dicevo prima. Sempre pronti a buttarci in sfide assurde, a spingerci oltre i nostri limiti, a fare cose che la maggior parte delle persone considererebbe pazze. E forse lo sono. Probabilmente lo sono.
Ma c’è qualcosa di incredibilmente liberatorio in tutto questo. Nel lasciare andare le inibizioni, nel permettersi di essere completamente esausti, sudati, al limite delle proprie forze, in pubblico. C’è una strana forma di catarsi nel toccare il fondo della propria resistenza fisica e mentale e scoprire che si può ancora andare avanti.
Eventi come “Beers and Burpees” sono un microcosmo di ciò che il CrossFit rappresenta. Sfida, comunità, resilienza. E sì, anche un po’ di follia. Ma è una follia condivisa, una follia che ci unisce, che ci spinge a essere versioni migliori di noi stessi. Anche se queste versioni migliori sono temporaneamente incapaci di salire le scale senza imprecare ad ogni gradino.
Mentre mi trascinavo verso la doccia, ogni movimento una piccola agonia, ho realizzato che, nonostante tutto, ero grato. Grato per questa comunità di pazzi che mi ha accolto, per un corpo che, nonostante le proteste, è capace di sopportare queste prove e per la possibilità di fare la differenza, anche se in un modo così bizzarro.
E sì, ero grato anche per la birra. Perché, ammettiamolo, dopo 30 minuti di burpees, quella birra sa di paradiso.
Quindi eccoci qui, alla fine di un’altra avventura nel mondo del fitness funzionale. Doloranti, esausti, ma stranamente soddisfatti. Pronti a lamentarci per giorni dei dolori muscolari, ma segretamente orgogliosi di averli.
Credo che in definitiva, è questo che significa essere parte della comunità CrossFit. Significa abbracciare la sfida, accettare il dolore, celebrare i piccoli trionfi. Significa essere parte di qualcosa di più grande di noi, anche se quel qualcosa implica fare un numero ridicolo di burpees in un sabato mattina.
E mentre mi addormentavo quella sera, corpo dolorante ma spirito stranamente leggero, ho realizzato una verità fondamentale: nel mondo del CrossFit, la follia non è solo accettata. È celebrata.
Quindi, alla prossima sfida assurda, alla prossima serie infinita di burpees, al prossimo momento di “ma chi me lo fa fare”. Perché so che ci sarò. Ci saremo tutti. Pronti a soffrire, sudare e alla fine brindare insieme.
Perché siamo CrossFitter. E questa è la nostra normalità.