Non so voi, ma io odio sentirmi fuori posto. È una sensazione che mi mette a disagio, mi fa sentire vulnerabile e stupido. E invece è esattamente così che mi sono sentito quella maledetta mattina quando ho deciso di fare un drop-in in quel Box di CrossFit di cui avevo sentito parlare tanto bene.
Ero in trasferta per lavoro in una città che non conoscevo. Avevo programmato di restare un paio di giorni e da bravo CrossFitter ossessionato, non potevo certo saltare gli allenamenti. Così, armato di buone intenzioni e di una dose extra di pre-workout, mi sono presentato di buon’ora a quello che, sulla carta, sembrava essere il miglior Box della zona.
Già dall’esterno, l’edificio emanava quell’aura di coolness tipica dei posti frequentati da gente che si prende troppo sul serio. Sai, quel genere di posto dove ti aspetti di trovare hipster con barbe curate che discutono animatamente sul metodo migliore per preparare il caffè cold brew, mentre indossano t-shirt con scritte criptiche tipo “Eat. Sleep. WOD. Repeat.” Insomma, il classico tempio del fitness funzionale per veri duri.
Ho parcheggiato la mia anonima auto a noleggio accanto a una fila di SUV lussuosi. Già mi sentivo fuori posto. Ho preso un respiro profondo, ho afferrato il mio zaino vissuto e mi sono diretto verso l’ingresso con la determinazione di chi sta per affrontare un Badger per la prima volta.
Appena entrato, sono stato investito da quella familiare miscela di odori: sudore, gomma e disinfettante per pavimenti. L’aria vibrava al ritmo di una musica elettronica martellante che sembrava voler perforare i timpani. Fin qui, tutto nella norma.
Ma è stato in quel momento che ho avuto la prima avvisaglia che qualcosa non andava per il verso giusto. La ragazza seduta alla reception, con addosso più accessori fitness di quanti ne abbia mai visti in un negozio specializzato, mi ha lanciato un’occhiata che oscillava tra l’annoiato e l’infastidito. Come se la mia presenza fosse un’inaspettata seccatura nella sua giornata perfettamente pianificata.
“Posso aiutarti?” ha chiesto con un tono che suggeriva l’esatto contrario.
“Ehm, sì… Vorrei fare un drop-in per la classe delle 10:30,” ho risposto, cercando di suonare il più sicuro possibile.
Ha alzato un sopracciglio perfettamente depilato. “Hai prenotato?”
“Beh, no… Sul vostro sito c’era scritto che non era necessario per i drop-in,” ho balbettato, sentendomi sempre più a disagio.
Ha sospirato come se le avessi appena chiesto di risolvere l’enigma della fusione fredda. “Va bene, riempi questo modulo. Sono 25 Euro. Solo contanti.”
Mentre armeggiavo con il portafoglio, maledicendo mentalmente la mia mancanza di previdenza, ho notato un gruppo di atleti che entrava. Tutti perfettamente abbinati nei loro outfit di ultima generazione, si muovevano come un branco ben affiatato. Hanno lanciato occhiate nella mia direzione, sussurrando e ridacchiando tra loro. Mi sono sentito come se avessi un’insegna al neon lampeggiante sulla testa che diceva “ESTRANEO”.
Ho consegnato il modulo e i soldi, ricevendo in cambio una liberatoria da firmare lunga come la Costituzione. L’ho scorsa velocemente e ho firmato, sperando di non aver appena venduto l’anima al diavolo o promesso il mio primogenito a qualche divinità del fitness.
Finalmente libero dalle formalità burocratiche, mi sono diretto verso gli spogliatoi. E qui è arrivata la seconda doccia fredda. Lo spogliatoio era un mix tra un negozio di abbigliamento sportivo di lusso e un set fotografico per una rivista di fitness. Ovunque mi girassi, vedevo corpi scolpiti avvolti in tenute che sembravano appena uscite da una sfilata di moda.
Io, con i miei pantaloncini sbiaditi e la mia maglietta con il logo della Battle of London del 2014, mi sentivo come se fossi capitato a una festa in smoking indossando un pigiama. Ho cercato di cambiarmi il più velocemente possibile, evitando gli sguardi e sentendomi come un adolescente insicuro al suo primo giorno di liceo.
Uscito dallo spogliatoio, mi sono diretto verso l’area principale del Box. Ed è qui che la situazione è passata da imbarazzante a surreale. L’enorme spazio open era un tripudio di attrezzature nuovissime, pavimentazione in gomma di prima qualità, striscie di led colorati ovunque e banner motivazionali che gridavano slogan come “Il dolore è debolezza che lascia il corpo” o “Se non stai morendo, non ti stai impegnando abbastanza”.
Ma non era l’ambiente in sé a farmi sentire fuori posto. Era l’atmosfera. O meglio, la mancanza di essa. In tutti i Box che ho frequentato, c’è sempre stato un senso di cameratismo, di comunità. Qui invece sembrava di essere capitati in mezzo a un gruppo di modelli fitness pronti per un servizio fotografico, più che tra atleti pronti ad allenarsi.
Mi sono avvicinato timidamente a un gruppo di persone che chiacchieravano vicino al rack dei bilancieri. Ho cercato di inserirmi nella conversazione con un “Ehi, ciao a tutti! Sono nuovo qui, faccio un drop-in oggi.”
Il silenzio che è seguito è stato così profondo che avrei potuto sentire cadere uno spillo. Cinque paia di occhi si sono voltate verso di me, scrutandomi dalla testa ai piedi come se fossi un esemplare di una specie aliena appena atterrata sul pianeta Terra.
Dopo quello che è sembrato un secolo, una ragazza con un caschetto biondo platino e addominali che avrebbero fatto invidia a una statua greca ha risposto con un laconico “Ok” prima di voltarsi e riprendere la conversazione con gli altri, ignorandomi completamente.
In quel momento, avrei voluto che il pavimento si aprisse e mi inghiottisse. O meglio ancora, avrei voluto avere il superpotere di diventare invisibile. Ma no, ero lì, in carne ed ossa, forse un po’ troppe per gli standard di quel posto, a sentirmi come un intruso a una festa a cui non ero stato invitato.
Ho cercato di scuotermi da quella sensazione di disagio e mi sono diretto verso un angolo libero per iniziare il mio pre-riscaldamento. Mentre eseguivo i soliti esercizi di mobilità, non potevo fare a meno di notare gli sguardi furtivi nella mia direzione. Era come se tutti si aspettassero da un momento all’altro che facessi qualcosa di assurdo, tipo mettermi a fare la ruota o iniziare a cantare l’inno nazionale a squarciagola.
Finalmente, il coach ha fatto il suo ingresso. Un tipo sulla trentina, con bicipiti grandi quanto le mie cosce e un’espressione che oscillava tra il serio e l’annoiato. Ha dato un’occhiata al gruppo e poi si è fermato su di me, l’unica faccia nuova.
“Tu devi essere il drop-in,” ha detto, non come una domanda ma come un’affermazione carica di un sottile disprezzo.
Ho annuito, cercando di sorridere. “Sì, sono io. Piacere di…”
Ma prima che potessi finire la frase, si era già voltato verso il resto della classe. “Ok gente, oggi abbiamo un ospite. Cerchiamo di non rallentare troppo il ritmo per lui, va bene? Fantastico. Non solo ero l’outsider, ma ero anche stato etichettato come potenziale zavorra per l’intera classe. La mia autostima, già vacillante, ha subito un altro duro colpo.
Il warm-up è stato un’esperienza surreale. Mentre tutti eseguivano i movimenti con una sincronizzazione quasi robotica, io mi sentivo come un’anatra zoppa in mezzo a un gruppo di cigni. Ogni volta che incrociavo lo sguardo di qualcuno, venivo accolto da espressioni che andavano dall’indifferenza al fastidio aperto.
Poi è arrivato il momento di annunciare il WOD. Il coach ha scritto sulla lavagna una serie di esercizi che sembravano pensati apposta per mettermi in difficoltà. Clean and jerk, muscle-up, handstand push-up… Praticamente un greatest hits di tutti i movimenti in cui non eccello. Anzi…
“Qualcuno ha bisogno di scalare?” ha chiesto il coach, guardando direttamente verso di me con un’espressione che suggeriva chiaramente che avrei dovuto alzare la mano e ammettere la mia inferiorità.
Ho esitato per un momento. Una parte di me voleva alzare la mano e chiedere delle modifiche, ma l’orgoglio ha avuto la meglio. “No, grazie. Vado RX,” ho risposto, sapendo benissimo che mi stavo cacciando in un guaio più grande di me.
Il coach ha alzato un sopracciglio, chiaramente scettico. “Sei sicuro? Non vorrei che ti facessi male.”
“Tranquillo, ce la faccio,” ho insistito, sentendomi come se stessi firmando la mia condanna a morte.
E così è iniziato il WOD. I primi minuti non sono andati male. L’adrenalina e la determinazione di dimostrare il mio valore mi hanno spinto oltre i miei limiti. Ma ben presto la realtà ha iniziato a farsi sentire. Mentre gli altri atleti sembravano muoversi con la grazia e la potenza di farfalle monarca, io arrancavo come un bradipo artritico. I clean and jerk si sono trasformati in una serie di movimenti scoordinati che assomigliavano più a una danza interpretativa che a un esercizio di sollevamento pesi. I muscle-up? Lasciamo perdere. Dopo il terzo tentativo fallito, ho optato per delle trazioni normali, ignorando gli sguardi di disapprovazione del coach.
Ma il momento peggiore è arrivato con gli handstand push-up. Dopo aver lottato per mettermi in verticale contro il muro, sono riuscito a eseguire un paio di ripetizioni traballanti prima di crollare rovinosamente. Il silenzio che è seguito è stato assordante. Tutti si sono fermati per guardarmi, alcuni con espressioni di shock, altri che cercavano malamente di trattenere le risate. Il coach si è avvicinato con un’espressione che mischiava irritazione e preoccupazione.
“Forse è meglio se ti fermi qui,” ha detto, non come un suggerimento ma come un ordine.
Volevo sprofondare. Volevo correre fuori da quel Box e non fermarmi fino a raggiungere l’aeroporto più vicino. Ma invece, con le guance in fiamme per l’imbarazzo, mi sono alzato e ho annuito.
“Mi dispiace,” ho mormorato, sentendomi come un bambino che ha appena rotto il vaso preferito della nonna.
Il coach ha scosso la testa. “Non ti preoccupare. Forse la prossima volta potresti considerare di iniziare con una classe per principianti.”
Quelle parole mi hanno colpito come uno schiaffo in faccia. Io, che mi allenavo da anni, che avevo partecipato a competizioni, che consideravo il CrossFit una parte fondamentale della mia vita, ero appena stato relegato al rango di principiante.
Il resto della classe è continuato, ma per me era come se il tempo si fosse fermato. Mi sono ritirato in un angolo, fingendo di fare stretching mentre in realtà cercavo solo di rendermi il più invisibile possibile. Gli altri atleti hanno terminato il WOD, celebrando i loro risultati e congratulandosi a vicenda. Nessuno mi ha rivolto la parola o anche solo uno sguardo.
Quando finalmente la tortura è finita, mi sono diretto verso gli spogliatoi come un cane bastonato. Mi sono cambiato in fretta, evitando il contatto visivo con chiunque. Mentre uscivo, ho incrociato il coach.
“Ehi,” mi ha chiamato. Per un momento, ho sperato in una parola di incoraggiamento, un gesto di solidarietà. Invece, mi ha detto: “La prossima volta, se decidi di tornare, assicurati di essere onesto sulle tue capacità. Non vogliamo incidenti qui.”
Ho annuito meccanicamente e sono uscito, sentendomi come se avessi appena subito la peggiore umiliazione della mia vita. Una volta in macchina, ho appoggiato la testa sul volante e ho preso un respiro profondo.
Quella che doveva essere una semplice sessione di allenamento si era trasformata in un’esperienza mortificante che aveva messo in discussione non solo le mie capacità atletiche, ma anche il mio senso di appartenenza a una comunità che pensavo mi avrebbe accolto a braccia aperte.
Mentre guidavo via, con la coda tra le gambe, non potevo fare a meno di riflettere su quanto fosse surreale e deludente l’intera esperienza. Il CrossFit, per me, era sempre stato sinonimo di comunità, di supporto reciproco, di spingere i propri limiti in un ambiente accogliente. Invece, mi ero ritrovato in un mondo fatto di apparenze, di giudizi silenziosi e di una competitività tossica che andava ben oltre il sano spirito di sfida.
Mi sono chiesto se fossi io il problema. Forse ero troppo sensibile, forse mi ero lasciato intimidire dall’ambiente e avevo interpretato male le intenzioni degli altri. O forse e questa possibilità mi rattristava ancora di più, quello che avevo vissuto era un sintomo di come il CrossFit, o almeno una parte di esso, si stesse trasformando in qualcosa di molto diverso da ciò che mi aveva fatto innamorare di questo sport.
Nei giorni successivi, mentre continuavo la mia trasferta di lavoro, non sono più tornato in quel Box. L’idea di affrontare di nuovo quegli sguardi, quell’atmosfera ostile, mi faceva passare la voglia di allenarmi. Ho scelto un altro Box, meno a portata di mano ma dove, per fortuna, ho trovato quell’atmosfera di casa che dovrebbe esistere in ogni Box delo mondo.
Ma più ci pensavo, più mi rendevo conto che quello che avevo vissuto non era solo un’esperienza personale negativa. Era il sintomo di qualcosa di più grande, di un cambiamento che stava avvenendo nel mondo del CrossFit. Un cambiamento che, forse, rifletteva trasformazioni più ampie nella nostra società.
Mi sono ritrovato a riflettere su come, nel corso degli anni, avevo visto il CrossFit evolversi da una nicchia per appassionati a un fenomeno globale. Con la popolarità erano arrivati i sponsor, le grandi competizioni, l’attenzione mediatica. E con tutto ciò, inevitabilmente, era arrivata anche una certa dose di superficialità.
Ricordo i miei primi giorni di CrossFit, in un Box improvvisato in una specie di vecchio magazzino. Eravamo un gruppo eterogeneo: dal ragazzino che voleva mettere su massa al quarantenne in sovrappeso che cercava di rimettersi in forma. Nessuno si preoccupava di come fosse vestito o di quanto peso sollevasse. L’importante era esserci, impegnarsi, supportarsi a vicenda.
Ora, invece, mi ritrovavo in un mondo dove l’apparenza sembrava contare più della sostanza. Dove il valore di un atleta sembrava essere misurato più dai suoi followers su Instagram che dalla sua dedizione o dal suo spirito di squadra. Un mondo dove il “community” tanto sbandierato sembrava essere diventato poco più di uno slogan di marketing.
Non fraintendetemi. So bene che generalizzare è sbagliato e che ci sono ancora tantissimi Box e CrossFitter che incarnano i valori originali di questo sport. Ma quell’esperienza mi aveva aperto gli occhi su una tendenza che, forse, avevo ignorato troppo a lungo.
Mentre tornavo a casa dalla mia trasferta, ho deciso che era il momento di affrontare la questione di petto. Non potevo permettere che un’esperienza negativa minasse la mia passione per il CrossFit. Allo stesso tempo, non potevo ignorare quello che avevo visto e vissuto.
Appena rientrato, mi sono diretto al mio Box di sempre. L’atmosfera familiare, i volti amici, persino l’odore di sudore e gomma mi hanno fatto sentire immediatamente a casa. Ho salutato il coach, ho scambiato battute con gli altri atleti, mi sono sentito di nuovo parte di una comunità.
Dopo il WOD, mentre mi godevo quel dolore post-allenamento che solo un CrossFitter può amare, ho deciso di condividere la mia esperienza con il coach e alcuni compagni di allenamento. La loro reazione è stata un mix di shock, indignazione e in alcuni casi, triste rassegnazione.
“Purtroppo non sei il primo a raccontarmi un’esperienza del genere,” ha ammesso il coach, scuotendo la testa. “Sembra che alcuni Box abbiano perso di vista ciò che rende il CrossFit speciale.”
Questa conversazione ha innescato un dibattito animato. Alcuni sostenevano che l’evoluzione del CrossFit fosse inevitabile e che non tutto il cambiamento fosse negativo. Altri erano preoccupati che l’essenza stessa di questa disciplina fosse a rischio.
“Ma cosa possiamo fare noi?” ha chiesto qualcuno. “Non possiamo certo cambiare l’intero movimento del CrossFit.”
È stata questa domanda a far scattare qualcosa dentro di me. Forse non potevamo cambiare l’intero movimento, ma potevamo certamente fare la nostra parte per preservarne l’essenza.
Nei giorni successivi, ho iniziato a lavorare su un’idea. Ho contattato altri Box nella mia zona, ho parlato con atleti, coach, proprietari. Ho scoperto che molti condividevano le mie preoccupazioni e il desiderio di fare qualcosa.
Da queste conversazioni è nato un progetto: una serie di eventi inter-Box focalizzati non sulla competizione, ma sulla comunità. L’idea era semplice: ogni mese, un Box diverso avrebbe ospitato atleti da altri Box per un WOD speciale, seguito da un momento di condivisione. Niente punteggi, niente classifiche. Solo persone che si allenavano insieme, condividevano esperienze e si supportavano a vicenda.
Il primo evento è stato un successo oltre le aspettative. Vedere atleti di diversi Box mescolarsi, aiutarsi reciprocamente durante il WOD, scambiarsi consigli e ridere insieme è stato un promemoria potente di ciò che il CrossFit dovrebbe essere.
Ma la vera magia è avvenuta dopo il WOD. Seduti in cerchio, mangiando snack proteici e bevendo acqua, o birra, per i più temerari, abbiamo iniziato a condividere storie. Storie di come il CrossFit aveva cambiato le nostre vite, di sfide superate, di momenti di scoraggiamento e di trionfo.
C’era chi aveva perso 50 chili grazie al CrossFit, chi aveva superato la depressione, chi aveva trovato il coraggio di cambiare lavoro. C’erano atleti di ogni età, forma e livello di abilità. Eppure, in quel momento, eravamo tutti uguali. Tutti parte della stessa comunità.
Quell’esperienza ha rinnovato la mia fede nel CrossFit e in ciò che rappresenta. Mi ha ricordato che, nonostante i cambiamenti e le sfide, il cuore di questa disciplina batte ancora forte.
Nei mesi successivi, gli eventi inter-Box sono diventati sempre più popolari. Abbiamo visto nascere amicizie, collaborazioni, persino qualche storia d’amore. Poi atleti che prima si allenavano solo per l’estetica riscoprire la gioia di superare i propri limiti. Infine coach condividere conoscenze e tecniche, elevando il livello di tutti i Box coinvolti.
E io? Beh, ho continuato a fare drop-in quando ero in trasferta. Ma ora, invece di temere l’accoglienza, mi sono fatto portavoce di questo spirito di comunità. Ho iniziato a vedere ogni visita in un nuovo Box come un’opportunità per connettere, per imparare, per condividere. Certo, ho incontrato ancora qualche ambiente meno accogliente. Ma invece di lasciarmi scoraggiare, ho visto queste situazioni come sfide. Una battuta amichevole qui, un complimento sincero lì, e spesso anche i ghiacci più freddi si scioglievano.
Riflettendo su tutto questo, mi rendo conto che quell’esperienza negativa, per quanto dolorosa sul momento, è stata in realtà un dono. Mi ha aperto gli occhi, mi ha spinto all’azione, mi ha permesso di riscoprire e riaffermare ciò che amo del CrossFit. Il CrossFit, come ogni cosa nella vita, è ciò che noi ne facciamo. Può essere un semplice allenamento, può essere una competizione spietata, o può essere una comunità che ti sostiene e ti spinge a essere la migliore versione di te stesso.
Mentre mi preparo per il prossimo WOD, guardandomi intorno e vedendo facce familiari e nuove che si mescolano, sorrisi che si scambiano e incoraggiamenti che volano da una parte all’altra del Box, non posso fare a meno di sorridere. Questo è il CrossFit che amo. Questo è il CrossFit per cui vale la pena lottare. E se dovessi incontrare di nuovo quell’atteggiamento ostile? Farò un bel respiro profondo, ricorderò perché sono qui, e poi… beh, poi farò ciò che ogni buon CrossFitter fa di fronte a una sfida: la affronterò a testa alta, con un sorriso sul viso e la determinazione nel cuore.
Perché alla fine, che si tratti di sollevare un peso impossibile o di abbattere barriere sociali, il principio è lo stesso: non si tratta di quanto sei forte quando inizi, ma di quanto diventi forte lungo il percorso. E con la giusta comunità al tuo fianco, non c’è limite a quanto forte puoi diventare.
Mentre mi avvicino al bilanciere per iniziare il WOD, lancio un’occhiata al nuovo arrivato che sembra un po’ spaesato in un angolo. Gli faccio un cenno e un sorriso incoraggiante. “Ehi, benvenuto! Come ti chiami? È il tuo primo giorno qui?”
E così, il ciclo ricomincia. Un nuovo atleta, una nuova opportunità di costruire comunità, un nuovo capitolo nella storia infinita del CrossFit. Perché in fondo, non si tratta solo di sollevare pesi. Si tratta di sollevare gli altri e superare insieme i nostri limiti.