Io lo chiamo “Sindrome da Whiteboard” ed è contagiosa come l’ebola. I sintomi sono facilmente riconoscibili: occhio fisso sulla lavagna, ripetizione ossessiva del workout nella testa e quella domanda invariabile: “Tu quanto hai fatto?”.
La patologia si manifesta in varie forme. C’è il classico “scalatore seriale” che modifica il workout fino a renderlo irriconoscibile, solo per poter scrivere un tempo migliore. “Ho fatto Fran in 2:30!” Sì, con 15 kg sul bilanciere e jumping pull-up. Complimenti campione, hai appena vinto le olimpiadi della mediocrità.
Poi c’è il “sommelier del no-rep”, quello che conta le ripetizioni degli altri come se fosse pagato da CrossFit HQ. Lo stesso che, quando tocca a lui, fa squat che sembrano più degli accenni di cortesia che movimenti completi. Ma guai a farglielo notare; partono quaranta minuti di dissertazione sulla biomeccanica dell’anca che nemmeno al congresso mondiale di ortopedia.
Il mio preferito è il “cronometrista fantasioso”. Quello che ferma il timer con la velocità di un ninja ma poi ci mette due minuti a riprendersi prima di scrivere il tempo sulla lavagna. Miracolosamente, quel tempo è sempre tre minuti meno di quanto tutti hanno visto. Deve essere quella famosa teoria della relatività di Einstein: il tempo si dilata quando sei steso a terra ansimando come un mantice rotto.
Ma il vero capolavoro è il “PR hunter”. Ogni giorno è il giorno giusto per un personal record. Non importa se ieri hai fatto back squat al massimale, oggi è il momento giusto per provare il clean and jerk. Domani? Deadlift, ovvio. Il fatto che la tua schiena suoni come una marimba? Dettagli. L’importante è avere qualcosa da postare su Instagram con l’hashtag #PRday.
La cosa divertente è che sono gli stessi che poi si lamentano degli infortuni. “Non capisco come sia successo!” dicono, mentre tu ripercorri mentalmente le ultime tre settimane di movimenti eseguiti con la grazia di un rinoceronte ubriaco e la tecnica di un bambino di tre anni.
Il problema non è la competizione in sé. La competizione è sana, può essere motivante, può spingerti a dare il meglio. Il problema è quando diventa l’unica lente attraverso cui vedi l’allenamento. Quando preferisci fare un movimento di merda ma veloce piuttosto che uno fatto bene ma più lento. Quando il tuo ego è più gonfio dei tuoi bicipiti.
E non provare a far notare che magari potrebbero concentrarsi più sulla tecnica e meno sul tempo. Ti guarderanno come se avessi appena suggerito di fare CrossFit in smoking. “Ma così non miglioro!” dicono. No, infatti. Così ti fai male, che è diverso.
Il bello è che sono gli stessi che poi si vantano di quanto il CrossFit sia una comunità, di quanto si supportino a vicenda. Sì, come no. Ti supportano finché non li batti nel workout, poi improvvisamente il tuo squat non scende abbastanza sotto al parallelo e le tue trazioni sono tutte no-rep.
La verità è che il whiteboard dovrebbe essere uno strumento, non un’ossessione. Dovrebbe servire a tracciare i tuoi progressi, non a nutrire il tuo ego. Ma prova a spiegarlo a chi ha appena “battuto” il tempo di Grace del coach facendo dei power clean che sembravano più degli strappi alla schiena.
Alla fine, magari dovremmo inventare un nuovo workout: 21-15-9 di umiltà, tecnica e buon senso. Ma ho il sospetto che molti lo scalerebbero.
E se mentre leggi o ascolti ti senti chiamato in causa, magari è il momento di chiederti se quella sulla lavagna non sia solo una sequenza di numeri. Perché alla fine, l’unica competizione che conta davvero è quella con te stesso. Ma questa è una verità troppo scomoda per chi vive di tempi scalati e no-rep contate agli altri.