Karen, 150 preghiere al Dio delle Wall-Ball

Ci risiamo, con questa maledetta palla medica da 10 kg tra le mani. Mi fissa, impassibile, il muro. Sa che sto per soffrire. Sa che tra poco inizierò a imprecare contro di lui, contro la palla, contro me stesso e contro chiunque abbia inventato questo strumento di tortura chiamato Wall Ball.

150 ripetizioni. Un numero apparentemente innocuo, quasi banale. Ma chiunque abbia provato Karen sa che dietro quei tre numeri si nasconde un inferno fatto di braccia che tremano, gambe in fiamme e polmoni che implorano pietà.

Karen. Un nome femminile, dolce, quasi rassicurante. Chi l’ha battezzata così deve avere un sadico senso dell’umorismo. O forse era innamorato di una Karen particolarmente crudele e acida tipo quellal di Will&Grace, chissà. Fatto sta che questo workout è tutto fuorché gentile.

Mi guardo intorno nel box. Gli altri atleti si stanno preparando, ognuno con il proprio rituale pre-wod. C’è chi salta sul posto, chi fa stretching, chi respira profondamente a occhi chiusi. Io preferisco fissare il vuoto con aria da condannato a morte; è il mio modo di entrare nella giusta mentalità.

“Tre minuti all’inizio!” urla il coach. Un brivido mi percorre la schiena. Tre minuti e inizierà la danza. Anzi, la preghiera. Perché è questo che sembrano le wall ball viste dall’esterno: una serie infinita di inchini e lanci verso un’entità superiore.

Ci disponiamo in fila davanti al muro, ognuno con la propria palla medica ai piedi. Sembriamo un gruppo di fedeli pronti a iniziare un rito pagano. In effetti è proprio così. Stiamo per offrire il nostro sudore e la nostra fatica al dio del fitness funzionale, nella speranza che ci conceda in cambio forza, resistenza e un corpo scolpito. O almeno la capacità di salire le scale senza ansimare come un ottantenne fumatore.

“Un minutooooo!” urla il coach a squarciagola.

Afferro la palla, la soppeso. Sembra più pesante del solito. Eppure c’è scritto 10kg, da sempre. O forse sono io che mi sento più debole. Il mio ultimo tentativo di Karen risale a sei mesi fa. Non è andato benissimo. Ho chiuso in 8 minuti e 32 secondi, collassando subito dopo sudato e ansimante sul pavimento. Oggi punto a scendere sotto gli 8 minuti. Ambizioso? Forse. Masochista? Sicuramente.

“10 secondi!” ma quanto urla sto coach.

Inspiro profondamente. Espiro. Inspiro di nuovo. Il cuore accelera. L’adrenalina inizia a pompare nelle vene.

“3…2…1… GO!” E si parte. Il primo squat, seguito dal lancio. La palla colpisce il bersaglio sul muro e torna indietro. La afferro al volo, scendo di nuovo. Lancio. Afferro. Squat. Lancio. Un ritmo regolare, quasi ipnotico. Le prime ripetizioni scorrono via veloci, quasi facili.

10, 20, 30 ripetizioni. Il respiro si fa più pesante, ma sono ancora in controllo. Guardo l’orologio: 1 minuto e 45 secondi. Sono in anticipo sulla tabella di marcia che mi ero prefissato. Bene, continua così Rollo.

50 ripetizioni. Un terzo del workout è andato. Le braccia iniziano a sentire la fatica, ma niente di insopportabile. I quadricipiti bruciano un po’, ma è normale. Sono a 3 minuti e 10 secondi. Sempre in vantaggio.

70 ripetizioni. Ok, ora si fa sul serio. Il ritmo rallenta impercettibilmente. Devo concentrarmi per mantenere la tecnica corretta. Niente squat superficiali, niente lanci storti. Ogni ripetizione deve essere perfetta, altrimenti è tutto inutile. 4 minuti e 30 secondi.

90 ripetizioni. Cazzo. Le braccia sono di piombo. I quadricipiti urlano ad ogni squat. Il sudore mi cola negli occhi, offuscando la vista. Ma non posso fermarmi a pulirli, ogni secondo è prezioso. 5 minuti e 45 secondi. Sono ancora in tempo per chiudere sotto gli 8 minuti, ma devo spingere.

100 ripetizioni. La mente inizia a giocare brutti scherzi. Una vocina mi sussurra: “Dai, fai una pausa. Solo 10 secondi. Riprendi fiato.” La ignoro. So che se mi fermo anche solo per un istante, ripartire sarà un’impresa. Meglio continuare, un lancio alla volta. 6 minuti e 20 secondi.

120 ripetizioni. Sono nel territorio inesplorato. Non sono mai arrivato così lontano senza pause. Il dolore è ovunque. Braccia, gambe, schiena, tutto brucia. Il respiro è un rantolo affannoso. Ma mancano solo 30 ripetizioni. Posso farcela. Devo farcela.

130 ripetizioni. Il muro davanti a me ondeggia. O forse sono io che sto perdendo l’equilibrio. Ogni lancio è una scommessa: colpirò il bersaglio? Riuscirò ad afferrare la palla al rimbalzo? Ma quella che vedo è la Madonn a o solo una Santa a caso? Le gambe tremano vistosamente ad ogni squat. 7 minuti e 10 secondi. È una corsa contro il tempo.

140 ripetizioni. Non sento più nulla. Sono in uno stato di trance, anzi in modalità provvisoria, come il computer. Squat, lancio, afferra. Squat, lancio, afferra. Il mondo esterno non esiste più. C’è solo il muro, la palla e il dolore. 7 minuti e 40 secondi. Ce la posso fare.

145 ripetizioni. Ogni lancio è una tortura. Le braccia non rispondono più ai comandi. È pura forza di volontà a questo punto.

146… 147… 148…Il cuore martella nelle orecchie. La vista si annebbia. 149… Un ultimo, disperato sforzo. 150!

Mi accascio al suolo. Le gambe cedono di schianto. La palla rotola via, finalmente libera dalla mia presa. Ansimo come un cane in piena estate. Sento il sapore del sangue in bocca. Ho morso la lingua? Boh. Non importa.

Con uno sforzo sovrumano, volto la testa verso il timer: 7:52 Ce l’ho fatta. Ho battuto il mio record personale. Sono sceso sotto gli 8 minuti. Un sorriso idiota mi si allarga sul volto. Il dolore svanisce, sostituito da un’ondata di euforia. Ce l’ho fatta, cazzo!

Mentre giaccio sul pavimento, incapace di muovere un muscolo, rifletto sulla follia di ciò che ho appena fatto. 150 volte ho sollevato e lanciato una palla da 10 kg. 150 volte mi sono accovacciato e rialzato. Per cosa? Un numero su un timer? La soddisfazione di aver fatto meglio di sei mesi fa?

Da fuori deve sembrare una pazzia. E forse lo è. Ma chi pratica CrossFit sa che non si tratta solo di numeri e prestazioni. È una sfida con se stessi. Tipo spingere il proprio corpo e la propria mente oltre i limiti che pensiamo di avere, dimostrando a noi stessi che possiamo sempre migliorare, sempre crescere, sempre superarci.

Le wall ball, viste così, assumono quasi un significato mistico. Quel gesto ripetuto all’infinito, quel lancio verso l’alto seguito dallo squat, ricorda davvero una preghiera. Come se ogni ripetizione fosse un’offerta a qualche divinità del fitness.

“Oh potente dio delle wall ball, accetta questo mio sacrificio di sudore e fatica! Concedimi in cambio quadricipiti d’acciaio e spalle possenti!” Rido tra me e me, ancora disteso sul pavimento. Gli altri atleti mi guardano perplessi. Devono pensare che abbia dato di matto. E forse hanno ragione.

Ma non possono capire. Non possono comprendere la soddisfazione che si prova dopo aver completato Karen in un tempo minore di quello dell’ultima volta. È come se avessi scalato una montagna. Come se avessi corso una maratona. Come se avessi vinto una battaglia contro me stesso.

Lentamente, molto lentamente, mi rimetto in piedi. Le gambe tremano come gelatina. Faccio qualche passo incerto. Mi sento come un neonato che impara a camminare.

Il coach si avvicina, mi dà una pacca sulla spalla. “Gran bel tempo, Rollo! Hai fatto progressi.”

Annuisco, ancora incapace di parlare. Mi porge una bottiglia d’acqua. La afferro con gratitudine e bevo avidamente. L’acqua fresca scende nella gola, riportandomi lentamente alla vita. Guardo di nuovo il muro, la mia nemesi degli ultimi 8 minuti. Mi sembra quasi di vederlo sogghignare. “Allora, ti è piaciuto?” sembra chiedermi. “Vuoi rifarlo?”

E la cosa assurda è che una parte di me, quella parte masochista che mi ha spinto a iniziare CrossFit, quella parte folle che ama la sensazione di aver dato tutto, esausto ma soddisfatto, quella parte risponde: “Sì, cazzo. Quando rifacciamo?”

Scuoto la testa, incredulo di fronte alla mia stessa follia. Ma so già che tra qualche settimana, forse un mese, sarò di nuovo qui. Di fronte a questo muro. Con quella dannata palla tra le mani. Pronto a iniziare la mia preghiera di 150 ripetizioni.

Perché questo è il CrossFit. Questa è la maledizione delle wall ball. Questa è Karen. E noi, poveri atleti imperfetti, non possiamo fare altro che accettare la sfida. Ancora e ancora. Fino a quando le nostre preghiere saranno esaudite. O fino a quando le nostre spalle imploderanno. Quello che viene prima.

Mentre mi trascino verso gli spogliatoi, gambe molli e braccia penzoloni come un Bonobo particolarmente sfigato, non posso fare a meno di riflettere sull’assurdità di ciò che facciamo noi CrossFitter. Prendiamo le wall ball, ad esempio. Chi diavolo ha pensato che lanciare una palla contro un muro potesse essere un buon esercizio? Immagino la scena: un tizio, probabilmente reduce da una serata pesante a base di tequila e pessime decisioni, si sveglia con i postumi della sbornia e un’illuminazione.

“Ehi, ho un’idea geniale! Prendiamo una palla pesante, facciamo fare agli atleti uno squat, poi gli facciamo lanciare la palla contro un muro, per poi riprenderla e ricominciare da capo. E facciamoglielo fare 150 volte di fila! Sarà divertentissimo!”

E noi, come pecore, abbiamo seguito. Anzi, peggio. Abbiamo abbracciato questa tortura con entusiasmo. L’abbiamo elevata a benchmark, a misura del nostro fitness. Come se la capacità di lanciare ripetutamente una palla contro un muro fosse in qualche modo indicativa delle nostre capacità atletiche generali.

Ma a pensarci bene, quando nella vita reale ci capita di dover lanciare qualcosa contro un muro 150 volte di fila? A meno che non si lavori in un circo come giocolieri particolarmente monotematici, direi mai. Eppure eccoci qui, a sudare e imprecare, a spingere i nostri corpi fino al limite, tutto per un numero su un timer. Un numero che, fuori dal microcosmo del box, non significa assolutamente nulla.

Prova a dirlo a un non praticante:
“Ehi, oggi ho fatto Karen in 7:52!”
“Karen chi? E cosa le hai fatto?”
“No, Karen è un workout. 150 wall ball per tempo”
“Wall… cosa?”
“Sai, lanci una palla contro il muro…”
“…e questo dovrebbe impressionarmi?”

È in momenti come questi che mi rendo conto di quanto il CrossFit possa sembrare assurdo dall’esterno. Siamo un branco di masochisti che pagano per farsi torturare in modi sempre più creativi. Wall ball, burpees, thrusters… l’elenco degli esercizi che sembrano progettati da un sadico con troppo tempo libero è infinito.

E non parliamo dei nomi dei workout. Oltre a Karen, abbiamo Fran, Grace, Diane… sembra l’elenco degli invitati a un tè delle cinque in un romanzo di Jane Austen. Solo che invece di pasticcini e pettegolezzi, queste signore offrono dolore e sofferenza.

Ma la verità è che, per quanto possa sembrare folle dall’esterno, per noi ha un senso. C’è qualcosa di profondamente soddisfacente nel superare i propri limiti, nel vedere i propri progressi nero su bianco, o meglio, sudore su timer.

Le wall ball, con la loro ripetitività quasi ipnotica, diventano una sorta di meditazione attiva. Ogni lancio è un mantra, ogni squat una preghiera. Ti perdi nel ritmo, dimentichi il mondo esterno. Esisti solo tu, la palla, il muro. È come se, attraverso questa tortura autoinflitta, cercassimo di raggiungere una sorta di illuminazione fisica. Come se, da qualche parte dopo la 100esima ripetizione, nascosto tra il dolore alle spalle e il bruciore ai quadricipiti, ci fosse il segreto dell’universo.

O forse siamo solo un branco di idioti con troppo tempo libero e una soglia del dolore particolarmente alta. Chi può dirlo? Fatto sta che, mentre mi trascino sotto la doccia, so già che tornerò. Tornerò davanti a quel muro, con quella palla in mano. E ricomincerò la mia preghiera di 150 ripetizioni.

Perché in fondo, noi CrossFitter siamo così. Siamo quelli che, di fronte alla domanda “Vuoi del dolore gratuito?”, rispondiamo entusiasti: “Sì, grazie! Ne hai altro?” E forse è proprio questo che ci rende speciali. O pazzi. Probabilmente entrambe le cose.

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