Il misterioso caso del coach scomparso

Era una di quelle mattinate londinesi in cui la nebbia avvolgeva la città come un sudario umido, rendendo tutto sfocato e surreale. Perfetta, pensai, per nascondere i corpi di chi non sarebbe sopravvissuto al WOD di oggi.

Mentre mi avvicinavo al nostro box, notai subito che qualcosa non andava. Di solito, a quest’ora, si sentivano già i rumori familiari di bilancieri sbattuti a terra e le imprecazioni soffocate di chi cercava di sopravvivere al warm-up. Invece, silenzio.

Entrai nel box, nel piano interrato di un centro commerciale nel cuore di Central London, ma Bobby, il coach, non c’era.

“Strano”, mormorai tra me e me. Bobby era sempre il primo ad arrivare, di solito già alle 5 del mattino, ossessionato com’era dal perfezionare ogni dettaglio dei suoi WOD diabolici.

I soliti sospetti erano già lì, con espressioni che andavano dal perplesso all’annoiato. C’era Nigel, l’ex broker della City diventato fanatico del CrossFit dopo un burnout epico e che ora parlava di snatch e clean & jerk con lo stesso fervore con cui un tempo discuteva di azioni e bond. Poi Emily, la yogini riconvertita che ancora cercava di convincerci tutti a fare un “mindful handstand”, qualunque cosa volesse dire. E ovviamente non poteva mancare James, l’eterno RX+ che considerava scalare un esercizio come una personale offesa al suo ego.

“Qualcuno ha visto Bobby?” chiesi, cercando di non far trasparire la speranza nella mia voce. Forse, solo forse, oggi avremmo avuto una sessione tranquilla.

“Macché”, rispose Nigel, controllando ossessivamente il suo orologio come se stesse perdendo milioni alla borsa per ogni minuto di ritardo. “Non risponde nemmeno ai messaggi”.

“Magari si è finalmente reso conto che torturarci ogni giorno non è un lavoro eticamente accettabile e ha deciso di darsi al giardinaggio”, suggerì sarcasticamente Sarah, la new entry del box ancora non del tutto convinta che il CrossFit non fosse una forma elaborata di masochismo.

Passarono 10 minuti, poi 20. Niente Bobby. Il brusio nella sala aumentava, insieme alla tensione e alle teorie sempre più assurde sulla sua scomparsa.

“E se fosse stato rapito da qualcuno di qualche altro box?”, propose Emily con aria seria. “Sapete, i concorrenti, gli anti community…”.

“O magari”, intervenne James con un ghigno, “ha finalmente trovato un WOD troppo estremo anche per lui e si è auto-esiliato per la vergogna”.

Mentre le ipotesi si facevano sempre più fantasiose, tipo “Rapito dagli alieni per studiare la resistenza umana!” “In missione segreta per CrossFit HQ per sviluppare un nuovo movimento ancora più sadico del thruster!”, io non potevo fare a meno di pensare che forse, per una volta, l’universo ci aveva graziati regalandoci una mattinata di riposo.

Ma la mia gioia fu di breve durata. Proprio mentre stavo per suggerire di chiudere baracca e andare tutti a prenderci un English breakfast, tanto per compensare, la porta si spalancò con un tonfo.

Era Bobby. Ma non il Bobby che conoscevamo.

Il nostro coach, solitamente un esempio vivente di precisione militaresca e rigore atletico, sembrava essere passato attraverso un tornado. I capelli, di solito perfettamente gel-lati, erano un nido di rondine. La sua amata maglietta con la scritta “Whatever it takes” era strappata e macchiata di… era quello fango? E cos’era quell’odore? Una miscela di sudore, erba e… whisky?

“Ragazzi!”, esclamò con voce roca, gli occhi iniettati di sangue ma brillanti di un entusiasmo inquietante. “Scusate il ritardo, ma ho avuto… un’illuminazione”.

Un gemito collettivo si levò dalla sala. Le “illuminazioni” di Bobby erano famigerate quanto temute.

“Gente”, continuò, ignorando le nostre espressioni di terrore crescente, “ieri sera stavo guardando le repliche di ‘Giochi senza frontiere’, un vecchio show TV con le prove assurde? e ho avuto un’illuminazione. Perché limitarci ai soliti movimenti? Perché non espandere i confini di ciò che il corpo umano può fare?”.

Oh no. Oh no no no.

“Quindi”, proseguì con un sorriso che avrebbe fatto invidia al gatto del Cheshire, “ho passato tutta la notte a sperimentare nel parco. Ho corso, saltato, strisciato. Ho scalato alberi, attraversato stagni, sfidato la gravità. E ora, amici miei, ho creato il WOD definitivo. L’ho chiamato… ‘L’Odissea del Burpee’!”

Estrasse dalla tasca un foglio stropicciato e iniziò a leggere con l’entusiasmo di un bambino la mattina di Natale:

“Si parte con un mini corsa ad ostacoli nella galleria del centro commerciale. 20 burpees, poi fate 15 metri di bear crawl sull’asfalto, altri 20 burpees. Rientrate nel box passando dalla vetrina – don’t worry, l’ho già rotta io stanotte per voi”.

Pausa drammatica. Nessuno osava respirare.

“Una volta dentro, 50 wall balls alternate a 50 box jumps.”.Emily sembrava sul punto di svenire. James, per la prima volta da quando lo conoscevo, aveva perso la sua aria di superiorità.

“Proseguiamo con 100 thrusters, ma non i soliti noiosi thrusters. No no, questi sono ‘thrusters creativi’. Userete oggetti random che ho raccolto stanotte: pneumatici, sacchi di sabbia, persino un manichino di prova che ho… preso in prestito da un negozio. Varietà, gente, varietà!”

Nigel mormorò qualcosa su come avrebbe dovuto ascoltare sua madre e diventare un contabile e sono abbastanza sicuro che parlasse anche della mamma di Bobby ad un certo punto, ma il dialetto di Londra a volte è difficle da capire per noi italiani.

“Per finire in bellezza, usciamo di nuovo. Sul terrazzo al quarto piano ho preparato una zona ‘fangosa’. 50 burpees nel fango, alternati a 50 metri di lunges con un kettlebell in ogni mano. Oh, e ogni 3 minuti, bonus di 20 double-unders…”.

Un silenzio di tomba calò sul box. Bobby, con gli occhi febbricitanti, ci guardava aspettandosi probabilmente grida di giubilo.

“Ah, dimenticavo!”, aggiunse come se fosse un dettaglio insignificante. “Tutto questo va fatto in costume da bagno. Ho pensato che il disagio aggiuntivo potesse essere stimolante”.

Fu in quel momento che capii perché Bobby era arrivato in ritardo. Non era stato rapito, non aveva avuto un incidente. No, la triste verità era che il nostro amato e odiato coach aveva finalmente perso completamente il senno.

Mentre lo guardavo iniziare freneticamente a disporre pneumatici , realizzai una verità fondamentale: nel CrossFit, il vero pericolo non sono i workout estremi o il rischio di rabdomiolisi. No, il vero pericolo è l’immaginazione sfrenata di un coach con troppo tempo libero e un senso dell’umorismo discutibile e molto British.

E con un sospiro rassegnato, iniziai a togliermi le scarpe, preparandomi mentalmente per quello che sarebbe passato alla storia come “Il Giorno in cui il Box diventò letteralmente una prigione di burpees”.

Mentre mi dirigevo verso l’esterno, sentendo già l’odore del fango e il sapore della sconfitta, non potei fare a meno di pensare: “Forse la prossima volta che Bobby scompare, dovremmo semplicemente chiudere a chiave il box e fingere che non sia mai esistito”.

Ma sapevo che era una fantasia irrealizzabile. Perché nonostante tutto, nonostante il dolore, il sudore e l’occasionale desiderio di strangolare Bobby con una corda per saltare, eravamo tutti lì per una ragione. Quella folle, inspiegabile, masochistica passione chiamata CrossFit.

E mentre mi preparavo a fare il mio primo burpee nel fango londinese, che, vi assicuro, ha un bouquet tutto suo, mi resi conto che forse, solo forse, eravamo tutti un po’ pazzi quanto Bobby.

D’altronde, chi altro si alzerebbe all’alba per sottoporsi volontariamente a una simile tortura? Chi altro pagherebbe per il privilegio di sentirsi come se fosse stato investito da un autobus alla fine di ogni allenamento?

Noi. La tribù del CrossFit. I guerrieri del workout. I cavalieri del kettlebell.

E mentre Bobby urlava “3, 2, 1… GO!” con la voce di un generale che manda le truppe in battaglia, mi lanciai nell’Odissea del Burpee con un mix di terrore, rassegnazione e, sì, anche un pizzico di eccitazione.

Perché in fondo, in fondo in fondo, sapevamo tutti che domani saremmo tornati. Doloranti, imprecando, ma saremmo tornati. E Bobby sarebbe stato lì, puntuale come un orologio svizzero, con un nuovo folle piano per spingerci oltre i nostri limiti.

Perché questo è il CrossFit, baby. Non per deboli di cuore o di stomaco.

E mentre affondavo nel fango per il mio primo burpee, all’ombra della cupola di St.Paul, non potei fare a meno di ridere. Perché a volte, quando sei nel bel mezzo della follia, l’unica cosa sensata da fare è abbracciare il caos e godersi il viaggio. Anche se quel viaggio implica fare double-unders bendati in costume da bagno in un roof top di Londra. E noi, i suoi fedeli abitanti, non avremmo voluto essere in nessun altro posto al mondo.

Forse.

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