Il lamento perpetuo del CrossFitter

Sono le 17:30 e sto chiudendo il mio laptop nell’ufficio di Strand a Londra. Mentre mi dirigo verso il bagno a piano terra, i muscoli ancora doloranti dal WOD di ieri protestano ad ogni passo. Inizio il mio consueto monologo interiore: “Ma chi me lo fa fare? Potrei andarmene dritto a casa a rilassarmi. Sono un idiota.”

Eppure eccomi qui, che mi infilo i pantaloncini e la maglietta tecnica nel bagno dell’ufficio, pronto per un’altra sessione di quello che potrebbe essere tranquillamente classificato come masochismo legalizzato. Il CrossFit.

Uscendo dall’edificio, con lo zaino in spalla, mi mischio alla folla di pendolari che si dirige verso la fermata della metro di Temple. La maggior parte sta tornando a casa dopo una lunga giornata di lavoro. Io invece mi sto dirigendo verso il mio personale girone infernale.

Arrivo al box ancora con la mente annebbiata dal lavoro. L’odio per il coach che sta per rovinarmi la serata è già palpabile. Lo guardo male mentre scrivo il mio nome sulla lavagna, sotto il WOD del giorno.

“Buonasera Rollo! Pronto per spaccare tutto?” mi accoglie con un entusiasmo fastidiosamente eccessivo.

“Mpf”, borbotto in risposta. Come fa ad essere così allegro? Sicuramente nasconde qualche terribile sorpresa per noi povere vittime sacrificali.

Mi unisco agli altri atleti per il riscaldamento. C’è chi chiacchiera allegramente, chi ride e scherza. Io li guardo torvo, chiedendomi se siano esseri umani o replicanti programmati per essere felici dopo una giornata di lavoro. Finito il warm-up, il coach ci raduna per spiegare il WOD. Eccolo lì, con quel suo ghigno sadico. So già che non mi piacerà.

“Oggi faremo Murph!” annuncia trionfante.

Un coro di lamenti si alza dal gruppo. Murph. Il benchmark WOD più temuto e odiato. Una corsa di un miglio, 100 pull-up, 200 push-up, 300 squat e un’altra corsa di un miglio. L’incubo di ogni CrossFitter che si rispetti.

“Ma coach, siamo in pieno centro a Londra, dove corriamo?” protesta qualcuno.

“Abbiamo mappato un percorso intorno all’isolato, equivale esattamente a un miglio!” risponde lui, implacabile.

Inizio a prepararmi mentalmente, maledicendo il giorno in cui ho deciso di entrare in questo box per la prima volta. Potevo fare yoga. O pilates. Ma no, dovevo per forza buttarmi in questa follia.

Il timer parte. La prima corsa non è male. “Forse ce la posso fare”, penso ingenuamente. Poi arrivano le pull-up e capisco che sarà un bagno di sangue. A metà dei push-up sono già in apnea, col cuore che cerca di uscirmi dal petto.

“Dai Rollo, non mollare!” urla il coach.

Lo odio. Lo odio con tutto me stesso in questo momento. Lui e il suo stupido WOD. E quel timer che sembra girare troppo veloce. Finalmente termino, collassando sul pavimento sudato e ansimante. Sono distrutto, svuotato, prosciugato di ogni energia vitale. Il coach si avvicina raggiante:

“Grande Rollo! Hai migliorato di 1 minuto!”

Lo guardo con gli occhi iniettati di sangue. In questo momento non me ne potrebbe fregare di meno del mio tempo. Voglio solo sopravvivere. Eppure, mentre mi trascino verso gli spogliatoi, sento già nascere dentro di me quella strana sensazione. Quel mix di sofferenza e soddisfazione. Quel senso di realizzazione per aver superato i propri limiti.

Esco dal box dolorante ma stranamente energizzato. “In fondo non è andata male”, mi ritrovo a pensare. “La prossima volta potrei provare a fare le pull-up senza scalarle.”

E così, come in un loop infinito, il ciclo ricomincia. Stasera maledirò il momento in cui ho deciso di tornare domani. Domani pomeriggio mi cambierò in ufficio imprecando. E domani sera sarò di nuovo qui, pronto a lamentarmi del prossimo WOD. Perché noi CrossFitter siamo fatti così. Ci lamentiamo sempre, ma non saltiamo mai un allenamento.

È un paradosso che ho osservato fin dai miei primi giorni nel mondo del CrossFit. Questa strana dicotomia tra il lamentarsi costantemente e l’essere sempre presenti, pronti a dare il massimo. All’inizio pensavo fosse solo una mia impressione. Poi ho capito che è un tratto comune a praticamente tutti i praticanti di questa disciplina.

Prendiamo Steve, uno dei veterani del nostro box. Ogni santo giorno arriva borbottando che è stanco, che ha avuto una giornata pesante in ufficio, che ha mille impegni. Eppure è sempre il primo ad arrivare e l’ultimo ad andarsene. Si lamenta del programma, dice che il coach vuole ucciderci, impreca ad ogni rep. Ma guai a proporgli di saltare un allenamento.

O Soo-Yeon, la ragazza Coreana, che prima di ogni WOD elenca minuziosamente tutti i suoi acciacchi. Il ginocchio che fa male, la spalla che scricchiola, il mal di schiena. Sembra quasi che debba andare in guerra piuttosto che allenarsi. Poi parte il timer e diventa una macchina, macinando rep su rep senza sosta.

E che dire di Lucas, che si lamenta sempre del suo lavoro stressante nella City, degli orari impossibili, di quanto sia difficile conciliare tutto. Eppure riesce sempre a trovare il tempo per venire in palestra, anche se significa saltare la pausa pranzo o rinunciare all’after-work pub con i colleghi.

Io stesso non sono da meno. Quante volte mi sono ripromesso di prendermi una pausa, di saltare un giorno per recuperare? E quante volte mi sono ritrovato comunque al box, a imprecare contro il workout del giorno?

C’è qualcosa di profondamente masochistico in tutto questo, non possiamo negarlo. Eppure dev’esserci una spiegazione, una ragione che va oltre il semplice “ci piace soffrire”. Ho una teoria al riguardo. Credo che questo comportamento apparentemente contraddittorio sia in realtà un meccanismo di difesa psicologico molto sofisticato.

Cioè, il CrossFit è duro. Dannatamente duro. Spinge costantemente i nostri limiti, ci mette di fronte alle nostre debolezze, ci costringe a superare barriere mentali e fisiche che non pensavamo nemmeno di avere. È un processo di crescita continuo, ma anche estremamente faticoso e a volte doloroso.

Lamentarsi diventa quindi una valvola di sfogo, un modo per esorcizzare la paura e l’ansia che inevitabilmente accompagnano questa sfida costante. È come se, lamentandoci, dessimo voce a quella parte di noi che vorrebbe mollare, che ha paura di fallire, che teme il dolore e la fatica. Ma allo stesso tempo, continuando ad allenarci nonostante le lamentele, dimostriamo a noi stessi che siamo più forti di quella vocina. Che possiamo superare le nostre paure e i nostri limiti. Ogni volta che ci lamentiamo ma poi completiamo comunque il WOD, è come se vincessimo una piccola battaglia contro noi stessi.

Inoltre, lamentarsi crea un senso di comunità e condivisione. Quando ci lamentiamo tutti insieme prima di un workout particolarmente tosto, stiamo in realtà creando un legame. Stiamo dicendo “siamo tutti sulla stessa barca, stiamo per affrontare questa sfida insieme”. È un modo per darsi forza a vicenda, per sentirsi parte di un gruppo unito dalla stessa “sofferenza”.

C’è anche un elemento di scaramanzia in tutto questo. Come se lamentarsi fosse un modo per “ingraziarsi gli dei del CrossFit”. Se ci lamentiamo abbastanza, magari il WOD non sarà così terribile come pensiamo. È irrazionale, certo, ma quanti di noi non hanno mai fatto un pensiero del genere? E poi c’è la soddisfazione finale. Quel senso di realizzazione che proviamo dopo aver completato un workout che ci sembrava impossibile. È come se tutte le lamentele precedenti servissero ad amplificare questa sensazione. Più ci siamo lamentati prima, più ci sentiamo realizzati dopo.

È un ciclo continuo di sofferenza e realizzazione, di lamenti e soddisfazione. Un ciclo che crea dipendenza, che ci spinge sempre a tornare, nonostante i muscoli doloranti e la fatica.

Ma c’è di più. Il CrossFit, con la sua enfasi sulla misurabilità e sul miglioramento continuo, offre un terreno fertile per questo tipo di comportamento. Ogni WOD è una sfida, ogni rep è un’opportunità per migliorare. E noi CrossFitter siamo ossessionati dal miglioramento. Prendiamo ad esempio il concetto di PR. Quante volte ci siamo lamentati di un determinato esercizio, solo per poi esultare quando abbiamo stabilito un nuovo record personale? È come se il lamento fosse propedeutico al successo. Come se dovessimo prima abbassare le aspettative (nostre e degli altri) per poi superarle.

“Non ce la farò mai a fare 10 muscle-up di fila”, ci lamentiamo. E poi, quando ci riusciamo, la soddisfazione è doppia. Non solo abbiamo raggiunto l’obiettivo, ma lo abbiamo fatto nonostante le nostre stesse “previsioni negative”.

C’è anche un elemento di umiltà in tutto questo. Il CrossFit ci insegna che c’è sempre margine di miglioramento, che non si finisce mai di imparare e crescere. Lamentarsi diventa quindi un modo per riconoscere i propri limiti, per ammettere che c’è ancora strada da fare. È un “so di non sapere” socratico applicato al fitness.

Ma attenzione, perché questo meccanismo può diventare una trappola. Ho visto persone talmente abituate a lamentarsi che hanno perso di vista il piacere dell’allenamento. Persone che passano più tempo a lamentarsi che ad allenarsi veramente. È un equilibrio delicato, e sta a noi trovare il giusto mezzo.

E poi c’è l’aspetto sociale. Il lamento condiviso crea legami, certo, ma può anche diventare una gara a chi si lamenta di più. “Oh, pensi che tu sia stanco? Io ho passato tutta la giornata in riunioni!” “Beh, io ho la spalla che mi fa male da settimane!” E via dicendo, in una spirale di negatività che rischia di minare lo spirito stesso del box.

D’altra parte, non possiamo negare che ci sia un certo piacere nel lamentarsi. È catartico, liberatorio. E in un certo senso, è anche divertente. Quante risate ci siamo fatti prendendoci in giro a vicenda per le nostre lamentele? È un modo per sdrammatizzare, per affrontare con leggerezza la fatica e il dolore.

Ma torniamo al paradosso iniziale: perché, nonostante tutte queste lamentele, non saltiamo mai un allenamento?

La risposta, credo, sta nella natura stessa del CrossFit e di chi lo pratica. Siamo persone che amano le sfide, che trovano soddisfazione nel superare i propri limiti. E ogni WOD, per quanto temuto e “odiato”, è un’opportunità per farlo. C’è anche un elemento di disciplina e costanza. Sappiamo che per vedere risultati dobbiamo essere costanti, che saltare un allenamento oggi rende più facile saltarne un altro domani. Le lamentele sono il nostro modo di riconoscere la difficoltà di questa disciplina, ma non ci impediscono di praticarla. E poi c’è l’aspetto comunitario. Il CrossFit non è solo un allenamento, è una comunità. Andare al box non significa solo allenarsi, ma anche incontrare amici, condividere esperienze, sostenersi a vicenda. Saltare un allenamento significherebbe rinunciare a tutto questo.

Infine, c’è quella sensazione di cui parlavo all’inizio. Quel mix di sofferenza e soddisfazione che proviamo dopo ogni WOD. È una sensazione unica, che crea dipendenza. E forse, in fondo, è proprio questo che ci spinge a tornare sempre, nonostante tutte le lamentele.

Perché sì, ci lamentiamo. Ci lamentiamo prima, durante e dopo ogni allenamento. Ma dentro di noi sappiamo che ne vale la pena. Sappiamo che ogni goccia di sudore, ogni muscolo dolorante, ogni imprecazione sussurrata, o urlata, durante un WOD particolarmente tosto, sono passi verso una versione migliore di noi stessi.

E allora continueremo a lamentarci. Continueremo a maledire il coach quando scrive sulla lavagna l’ennesima serie di burpees. Continueremo a dire che “questa volta è troppo, mollo tutto”. Ma continueremo anche a tornare, giorno dopo giorno, WOD dopo WOD.

Perché noi CrossFitter ci lamentiamo sempre, ma non saltiamo mai un allenamento. È la nostra natura, la nostra forza, la nostra follia. E in fondo, ammettiamolo, non vorremmo che fosse diversamente.

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