Ci sono momenti nella vita di un CrossFitter che segnano un prima e un dopo. No, non sto parlando del primo muscle-up o del PR sul back squat. Sto parlando di quella volta in cui perdi il tuo callo preferito. Sì, avete capito bene: il CALLO PREFERITO.
Per chi non mastica CrossFit, i calli sulle mani sono come medaglie al valore. Sono i nostri Purple Heart, le nostre cicatrici di guerra contro la gravità e l’acciaio zigrinato dei bilancieri. Ogni CrossFitter che si rispetti ha una collezione di calli di cui va più fiero del suo ultimo score con Amanda.
L’altro giorno, dopo una sessione particolarmente brutale di toes-to-bar, ho notato che il mio amato callo alla base dell’anulare sinistro, quello che mi aveva fedelmente accompagnato attraverso innumerevoli WOD, si era staccato. Così, senza preavviso. Nessuna cerimonia d’addio, nessun biglietto di commiato. Se n’era andato, lasciandomi con una pelle vergine e vulnerabile che non vedevo da anni.
Ho passato i successivi dieci minuti a fissare quel pezzo di pelle indurita sul pavimento del box, contemplando se fosse socialmente accettabile conservarlo come ricordo. Spoiler: non lo è. L’ho chiesto al coach e mi ha guardato come se avessi proposto di fare 400m di burpees volontari.
Questa perdita mi ha fatto riflettere su quanto noi CrossFitter siamo legati a questi piccoli segni di battaglia. Siamo come quei marinai di una volta, tutti tatuaggi e cicatrici, ognuna con la sua storia. Solo che invece di raccontare di porti esotici e tempeste in mare aperto, noi narriamo epiche battaglie contro WOD che sembravano impossibili e PR conquistati col sangue. Letteralmente con il sangue.
Ricordo una volta, durante una serata post-competizione, un gruppo di noi si è ritrovato a confrontare i propri “trofei”. Era una scena degna di “Lo Squalo”, solo che invece di cicatrici da morsi di squalo, stavamo mostrando orgogliosamente i nostri calli, le vesciche scoppiate e le abrasioni da corda. C’era chi mostrava con orgoglio un ginocchio permanentemente segnato dai box jump, chi esibiva delle mani che sembravano una mappa topografica tanto erano piene di calli e chi vantava una schiena coperta di frustate da jump rope. E non parliamo delle unghie dei piedi perse facendo i double unders. Quelle sono praticamente un rito di passaggio. Se hai ancora tutte le unghie dei piedi intatte, sei sicuro di fare veramente CrossFit?
Ma torniamo al mio callo perduto. La sua assenza mi ha fatto sentire quasi… nudo. Vulnerabile. Come se avessi perso il mio superpotere CrossFit. Ho passato i giorni successivi a guardare con sospetto ogni pull-up bar, ogni kettlebell, ogni corda, temendo che potessero approfittare della mia nuova debolezza. Ho persino ripreso a filmarmi nei WOD.
Eppure, in fondo, so che questo è solo l’inizio di un nuovo capitolo. Una nuova opportunità per forgiare un callo ancora più impressionante, ancora più degno di essere mostrato con orgoglio negli spogliatoi. Dopotutto, noi CrossFitter siamo un po’ come i calli che coltiviamo con tanto amore: duri fuori, ma con un cuore sorprendentemente tenero. E proprio come i nostri amati calli, anche quando la vita ci mette alla prova, ci riformiamo, più forti e resistenti di prima.
La storia non finisce qui. No no. Perché perdere un callo nel mondo del CrossFit è solo l’inizio di un’avventura. Un’avventura che coinvolge balsamo per le mani, tape, e una quantità imbarazzante di magnesite. Nei giorni successivi alla Grande Perdita, sì, ora ha un nome ufficiale, mi sono ritrovato a entrare nel box con la stessa cautela di Indiana Jones che entra in un tempio pieno di trappole. Ogni attrezzo era un potenziale nemico. Le sbarre del pull-up rack mi guardavano con aria di sfida, come a dire “Ehi, bello, vediamo quanto resisti senza il tuo piccolo amico calloso”.
E non parliamo dei kettlebell swing. Sapete quella sensazione di quando fate swing e il kettlebell ruota leggermente nel palmo della mano? Ecco, ora immaginate di farlo con un pezzo di pelle fresca e tenera come il culetto di un neonato. Non è esattamente la definizione di divertimento che trovereste nel dizionario. Ma la vera sfida è arrivata con il primo WOD post-callo. Era un Cindy. Per chi non lo sapesse, Cindy è quel delizioso workout in cui per 20 minuti fai round su round di pull-up, push-up e squat. Solitamente, lo affronto con lo stesso entusiasmo di un bambino davanti a un gelato. Quel giorno, invece, lo guardavo come se fosse una portata di fegato a mensa.
Ho iniziato con cautela, quasi in punta di piedi, cosa che non aiuta affatto nei pull-up. I primi round sono andati bene. “Forse”, ho pensato, “forse ce la posso fare”. Si certo. Al quinto round, ho sentito quella sensazione di quando la pelle inizia a tirare un po’ troppo. Ho guardato le mie mani e ho visto quello che temevo: una vescica in formazione, proprio dove una volta c’era il mio fedele callo.
Ora, in un mondo normale, una persona sana di mente si fermerebbe. Direbbe “Okay, per oggi basta così”. Ma noi CrossFitter non siamo esattamente noti per il nostro buon senso. No, noi siamo quelli che quando il coach dice “Ancora 30 secondi!” troviamo in qualche modo l’energia per fare altri 10 burpees, anche se un attimo prima stavamo pregando tutti i personaggi della Bibbia per far finire il timer.
Così, ho fatto quello che qualsiasi CrossFitter rispettabile farebbe: ho ignorato il dolore e ho continuato. Perché? Perché siamo fatti così. Da qualche parte nel nostro cervello c’è una vocina, che sospettosamente assomiglia a quella di Glassman, che ci dice “Pain is weakness leaving the body”. O forse è solo che abbiamo tutti un leggero caso di masochismo sportivo.
Terminato il WOD, le mie mani sembravano aver affrontato una guerra. La vescica si era trasformata in una specie di mini-lago di lava sulla mia mano. E faceva pure male. Ma avevo finito Cindy! E con un punteggio decente, considerando che per gli ultimi 5 minuti stavo praticamente appendendo le mie lacrime alla barra.
Il post-WOD è stato un mix di trionfo e preoccupazione. Da un lato, avevo superato la sfida. Dall’altro, ora dovevo affrontare la vera prova: la doccia post-allenamento. Quella in cui improvvisamente scopri tutti i tagli e le abrasioni che non sapevi di avere. È come giocare a “trova l’area dolorante” con acqua e sapone.
Ma la vera commedia è iniziata quando sono tornato a casa. Ho passato la serata a curare le mie mani come se fossero dei preziosi bonsai. Ho tirato fuori tutto l’arsenale: crema per le mani, tea tree oil, persino quel balsamo per labbra al burro di karité che uso solo quando ho le labbra così secche che sembrano il deserto del Sahara.
E poi c’è stata La Decisione. Quella con le maiuscole. Usare i guanti o no? Nel mondo del CrossFit, i guanti sono un argomento controverso quanto la dieta vegana o se kipping pull-up siano veri pull-up. Da un lato, i guanti proteggono le mani. Dall’altro, c’è questa strana idea che usarli sia come barare. Come se avere le mani intatte fosse un segno di debolezza.
Alla fine, ho optato per un compromesso: tape. Già, il tape. Il migliore amico di ogni CrossFitter. Lo usiamo per tutto: proteggere le mani, sostenere i polsi, tenere insieme pezzi del nostro corpo che minacciano di staccarsi durante un WOD particolarmente intenso. Sono abbastanza sicuro che se chiedessi a un CrossFitter di riparare la Torre di Pisa, la prima cosa che farebbe sarebbe avvolgerla nel tape.
Il giorno dopo, sono entrato nel box con le mani fasciate come se mi stessi preparando per un incontro di boxe. Il coach mi ha guardato, ha alzato un sopracciglio e ha detto: “Cindy?”. Ho annuito. Non c’era bisogno di altre parole.
E così è iniziata la mia nuova routine pre-WOD: applicare meticolosamente il tape, layer dopo layer, come un antico samurai che si prepara per la battaglia. È diventato quasi un rituale zen. C’è qualcosa di stranamente soddisfacente nel trovare il perfetto equilibrio tra protezione e sensibilità. Troppo tape e non senti la barra. Troppo poco e, beh, vi lascio immaginare.
Ma sapete una cosa? Mentre mi prendevo cura delle mie mani martoriate, ho realizzato qualcosa. Questi calli, queste vesciche, queste piccole battaglie quotidiane, sono parte integrante del nostro percorso. Non sono solo segni di fatica o di “lavoro duro”. Sono la prova tangibile del nostro impegno, della nostra dedizione. Sono il modo in cui il nostro corpo si adatta, si fortifica, si prepara per la prossima sfida.
Ogni callo è una storia. Il callo alla base del pollice? Quello è nato durante la settimana in cui ho deciso che avrei imparato a fare muscle-up o sarei morto provandoci , per fortuna, ce l’ho fatta prima di arrivare a quell’estremo. Il callo sul palmo? Quello si è formato durante la fase “kettlebell everything” del mio coach. E quel piccolo callo appena sotto l’anulare? Ah, quello è un veterano, nato durante il mio primo Open.
E ora, guardando le mie mani in via di guarigione, mi rendo conto che sto per iniziare un nuovo capitolo. Questi nuovi calli in formazione saranno i testimoni delle prossime sfide, delle prossime vittorie, dei prossimi momenti di disperazione quando il coach annuncia “Emom di 30 minuti!”.
Dopotutto è anche questo che amiamo del CrossFit, no? E se il prezzo da pagare sono un paio di mani che sembrano aver affrontato una carta vetrata gigante, beh, lo paghiamo volentieri. Perché sappiamo che dietro ogni callo c’è una vittoria. Dietro ogni vescica c’è una lezione imparata. E dietro ogni goccia di sangue lasciata sulla barra c’è la promessa che domani saremo un po’ più forti, un po’ più resistenti.
Quindi sì, ho perso il mio callo preferito. Ma ne creerò di nuovi. Perché questo è ciò che facciamo noi CrossFitter. Ci rompiamo e ci ricostruiamo, un WOD alla volta, un callo alla volta. E no, non userò mai i paracalli perchè non ho ancora trovato quelli ideali.