Il coach non è tuo padre

Il Box era diventato una seconda casa per molti di noi. Un capannone di 350 metri quadri trasformato in un tempio del fitness funzionale, dove il tintinnio dei bilancieri si mescolava alle grida di incoraggiamento e al respiro affannoso degli atleti. L’odore di sudore e magnesite impregnava l’aria, creando quell’atmosfera unica che solo chi pratica CrossFit può davvero comprendere.

Alessandro, il coach principale, arrivava sempre per primo. Alle 6:30 del mattino, quando la città dormiva ancora, lui era già lì ad aprire il Box, accendere le luci, controllare che tutto fosse in ordine. Poi si sedeva su una plyo box vicino all’ingresso, sorseggiando il suo caffè e osservando i primi atleti che arrivavano, ancora assonnati ma determinati.

C’era una routine ormai consolidata. Mario, il bancario cinquantenne che aveva scoperto il CrossFit dopo anni di sedentarietà, era sempre tra i primi. Poi arrivava Chiara, la giovane studentessa di medicina con la passione per le competizioni. Seguiva Luca, il poliziotto metodico e puntuale. E ancora Sandra, Paolo, Giorgia… ognuno con la propria storia, le proprie motivazioni, i propri obiettivi.

Alessandro li conosceva tutti, uno per uno. Conosceva i loro punti di forza e le loro debolezze, sapeva quali movimenti padroneggiavano e quali invece li mettevano in difficoltà. Conosceva le loro abitudini alimentari, i loro orari di lavoro, persino i nomi dei loro figli o dei loro animali domestici. Dopo tre anni passati insieme, allenandosi fianco a fianco quasi ogni giorno, era inevitabile che si fosse creato un legame profondo.

Ma quel legame, col tempo, aveva iniziato a diventare qualcosa di più complesso. Per molti atleti, Ale era diventato molto più di un semplice coach. Era un punto di riferimento, un confidente, quasi un amico. Alcuni lo vedevano come una sorta di figura paterna o fraterna. Gli chiedevano consigli non solo sull’allenamento, ma anche sulla dieta, sul sonno, sullo stress. Alcuni gli parlavano dei loro problemi personali, cercando in lui una guida.

All’inizio, Alessandro ne era lusingato. Gli piaceva sentirsi importante per loro, sapere di avere un impatto positivo sulle loro vite. Lo gratificava vedere i loro progressi, non solo fisici ma anche caratteriali. Molti erano diventati più sicuri di sé, più determinati, più resilienti. Il CrossFit li stava cambiando, nel corpo e nello spirito e lui si sentiva parte di quel cambiamento.

Ma con il passare del tempo, quella situazione aveva iniziato a pesargli. Si rendeva conto che molti atleti stavano sviluppando una sorta di dipendenza emotiva nei suoi confronti. Si aspettavano che fosse sempre disponibile, sempre pronto ad ascoltarli e consigliarli. Alcuni diventavano gelosi se dedicava più attenzioni ad altri. Altri ancora sembravano incapaci di prendere decisioni senza prima consultarlo.

La goccia che fece traboccare il vaso fu una sera, dopo l’ultima classe. Marta, una delle atlete più assidue, si avvicinò ad Alessandro mentre stava chiudendo il Box. Era una donna sulla quarantina, divorziata, che aveva iniziato CrossFit per rimettersi in forma dopo la separazione. In tre anni aveva fatto progressi incredibili, trasformandosi fisicamente e mentalmente.

“Alessandro, hai un minuto? Devo parlarti di una cosa importante”, gli disse con aria preoccupata.

Alessandro sospirò internamente. Era stanco dopo una lunga giornata di classi e non vedeva l’ora di tornare a casa. Ma sapeva che non poteva rifiutarsi di ascoltarla.

“Certo Marta, dimmi pure”, rispose cercando di sembrare il più possibile disponibile.

“Ecco, volevo un tuo consiglio… Ho conosciuto un uomo, mi piace molto e credo che la cosa sia reciproca. Però non so se sono pronta per una nuova relazione. Tu cosa ne pensi? Dovrei buttarmi o aspettare ancora?”

Alessandro rimase spiazzato. Non era certo la prima volta che un atleta gli chiedeva consigli su questioni personali, ma questa gli sembrava davvero troppo. Cosa ne poteva sapere lui della vita sentimentale di Marta? E soprattutto, perché lei pensava che fosse la persona giusta a cui chiedere?

In quel momento, Alessandro capì che la situazione stava sfuggendo di mano. Marta, come molti altri atleti, aveva sviluppato nei suoi confronti aspettative che andavano ben oltre il suo ruolo di coach. Doveva mettere dei paletti, per il bene suo e degli atleti.

Nei giorni successivi, Alessandro rifletté molto su quella situazione. Si rese conto che il problema non erano solo gli atleti che lo consideravano una specie di guru. Il problema era anche lui, che aveva permesso che si creasse quella situazione.

Decise di affrontare la questione apertamente. Durante il briefing della classe serale, quella in cui erano presenti la maggior parte degli atleti più assidui, Alessandro prese la parola.

“Ragazzi, prima di iniziare il WOD di oggi, vorrei parlarvi di una cosa importante”, esordì. Tutti gli sguardi si puntarono su di lui, curiosi e attenti.

Alessandro spiegò con calma ma fermezza che, pur essendo onorato della fiducia che gli atleti riponevano in lui, doveva ricordare a tutti, e a se stesso, che c’era un limite che non dovevano superare. Non poteva essere la soluzione a tutti i loro problemi. Nè poteva prendere decisioni al posto loro o essere responsabile della loro felicità o del loro benessere al di fuori del Box.

Le reazioni furono miste. Alcuni annuivano, comprensivi. Altri sembravano delusi o feriti. Marco, uno dei veterani del Box, espresse ad alta voce ciò che probabilmente molti stavano pensando: “Alessandro, capisco quello che vuoi dire. Ma non credi che sia un po’ tardi per mettere questi paletti? Voglio dire, ormai siamo come una famiglia qui dentro”.

Alessandro rispose con pazienza, spiegando che anche nelle famiglie ci sono dei ruoli e dei limiti. Sottolineò l’importanza di non trasformare il CrossFit in una dipendenza malsana, ma di usarlo come un trampolino di lancio per affrontare la vita fuori dal Box.

Il suo discorso toccò un nervo scoperto, ma in modo positivo. Ci fu un momento di silenzio, poi un applauso spontaneo si levò dal gruppo. Gli atleti sembravano aver compreso il messaggio.

Nei giorni e nelle settimane successive, si notò un cambiamento nell’atmosfera del Box. Gli atleti sembravano più maturi, più consapevoli. Continuavano a darsi supporto a vicenda, a incoraggiarsi durante i WOD, ma c’era come una nuova consapevolezza.

Marta, dopo qualche giorno di imbarazzo, tornò ad allenarsi con rinnovato entusiasmo. Una sera, dopo la classe, si avvicinò ad Alessandro per ringraziarlo. Aveva deciso di dare una chance alla nuova relazione, basandosi sul proprio istinto anziché cercare risposte esterne.

“Grazie Alessandro”, gli disse. “Grazie per avermi fatto capire che il CrossFit non è tutta la vita, ma un modo per renderla migliore”.

Quelle parole colpirono profondamente Alessandro. Era esattamente ciò che sperava di trasmettere ai suoi atleti.

Nei mesi successivi, si notarono altri cambiamenti positivi. Gli atleti sembravano più equilibrati, meno ossessionati dai risultati e più concentrati sul processo. Parlavano meno dei loro problemi personali durante le classi e più delle loro sfide atletiche. L’atmosfera era sempre calorosa e amichevole, ma con un nuovo senso di maturità e consapevolezza.

Alessandro osservava questi cambiamenti con un misto di orgoglio e sollievo. Aveva temuto che stabilire dei confini più chiari potesse allontanare alcuni atleti o raffreddare l’atmosfera del Box. Invece, sembrava aver avuto l’effetto opposto. La community era più forte che mai, ma in un modo più sano e equilibrato.

Un giorno, mentre stava sistemando alcuni bilancieri dopo una classe, si avvicinò Luca, il poliziotto. Era uno degli atleti più dediti, sempre presente, sempre concentrato.

“Ehi Alessandro, posso dirti una cosa?”, gli chiese.

“Certo Luca, dimmi pure”, rispose Alessandro, preparandosi mentalmente a qualsiasi cosa potesse dirgli.

“Volevo solo ringraziarti”, disse Luca. “Non solo per quello che ci insegni qui dentro, ma anche per averci fatto capire l’importanza di portare fuori di qui ciò che impariamo. Sai, l’altro giorno al lavoro c’è stata una situazione difficile. In passato mi sarei agitato, avrei perso la calma. Invece mi sono ricordato di come affrontiamo i WOD più duri: un rep alla volta, senza farsi prendere dal panico. E sai cosa? Ha funzionato. Ho gestito la situazione molto meglio di quanto avrei fatto prima”.

Alessandro sorrise, profondamente toccato da quelle parole. “Sono felice di sentirtelo dire, Luca. Questo è esattamente ciò che spero di trasmettere a tutti voi”.

Mentre Luca si allontanava, Ale si guardò intorno. Il Box era quasi vuoto ormai, gli ultimi atleti stavano uscendo, salutando e ridendo tra loro. L’odore di sudore e magnesite era ancora nell’aria, mescolato a quello del disinfettante che usavano per pulire le attrezzature.

Alessandro si rese conto che, nonostante le difficoltà e i momenti di dubbio, aveva fatto la scelta giusta. Aveva aiutato a creare non solo una community di atleti, ma un gruppo di persone più forti, più consapevoli, più capaci di affrontare le sfide della vita. E questo, pensò, valeva più di qualsiasi record personale o competizione vinta.

Mentre spegneva le luci e chiudeva la porta del Box, Alessandro sorrise tra sé. Il CrossFit era molto più che sollevare pesi e fare burpees. Era un modo per crescere, per superare i propri limiti, per diventare la versione migliore di se stessi. E lui era orgoglioso di far parte di tutto questo, nel modo giusto, con i giusti confini.

La strada era stata lunga e non sempre facile, ma ora Alessandro sentiva di aver trovato il giusto equilibrio. Era un coach, un mentore, un punto di riferimento. Ma non era un salvatore, né un guru, né un padre sostitutivo. Era semplicemente un uomo che aiutava altre persone a scoprire la propria forza, dentro e fuori dal Box. E questo, si disse mentre saliva in macchina per tornare a casa, era più che sufficiente.

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