Se qualcuno mi avesse detto che avrei passato vent’anni della mia vita a farmi maltrattare da bipedi sudati, probabilmente avrei preferito rimanere alluminio grezzo in qualche miniera del Michigan. Ma eccomi qui, Model D matricola 20130215-0101-00000123, veterano di infinite battaglie contro l’ignoranza umana e testimone silenzioso delle eterna lotta dell’uomo contro la fisica e il buon senso.
La mia storia inizia nel 2013, quando uscii dalla linea di produzione Concept2 nel Vermont. Ero giovane, lucido, con un monitor PM3 appena installato e la ferma convinzione che avrei contribuito all’evoluzione della specie umana.
I miei quattro anni li ho passati in quella che gli umani chiamano “globo gym”, un termine che ho imparato a disprezzare quasi quanto il suono delle scarpe da running sul mio binario quando cercano di remare a 40 spm senza aver mai fatto un corso base. Sei anni di torture quotidiane, relegato in un angolo tra un tapis roulant che non smetteva mai di lamentarsi e una cyclette che aveva più km di una Toyota Corolla del ’92.
In quella palestra ho catalogato almeno cinque tipologie di esseri umani, tutti accomunati da una profonda incomprensione della mia natura. C’erano i “cinque minuti di riscaldamento”, quelli che arrivavano, settavano 500m e remavano come se stessero schiacciando moscerini con le braccia. Mai visto uno finire quei dannati 500m; troppo impegnativo evidentemente, meglio passare ai bicipiti curl davanti allo specchio.
Poi c’erano i “lettori seriali”. Si sedevano, aprivano un libro o peggio ancora il cellulare, e iniziavano a dondolare avanti e indietro come bambole a molla scariche. Una volta uno è rimasto due ore. DUE ORE. A 16 spm. Se avessi potuto parlare, gli avrei suggerito di prendere una sedia a dondolo.
Ma la categoria che più mi ha fatto rimpiangere di non essere stato riciclato in lattine per birra erano i “maratoneti frustrati”. Quelli che arrivavano alle sei del mattino, mi settavano su distanze assurde tipo 10.000 metri e poi… beh, permettetemi di essere franco: ho visto tartarughe artritiche muoversi con più grazia. La loro tecnica? Un mix tra lo stretching e una seduta di pilates mal riuscita. Il mio monitor registrava split time da 3:30 sui 500 metri, mentre loro erano convinti di essere il nuovo Redgrave.
C’erano anche i “bodybuilder wannabe”, quelli che mi usavano esclusivamente per gli high pull, convinti che il rowing fosse un esercizio per la schiena. La prima volta che ne ho visto uno mettersi in piedi sul carrello per fare trazioni ho sperato che la mia catena si spezzassse e lo colpisse dritto in fronte.
E come dimenticare i Personal Trainer… Quegli esseri superiori che si professavano esperti di tutto e non sapevano distinguere una paletta da una pala da neve. Li vedevo spiegare ai loro clienti come remare: “Spingi con le gambe e tira con le braccia”. Punto. Questa era la somma totale della loro conoscenza tecnica. Del timing neanche l’ombra, della posizione del corpo un vago ricordo, del rapporto gamba-tronco-braccia manco a parlarne.
La svolta arrivò nel 20017, quando la globo gym fallì, chi l’avrebbe mai detto che un business plan basato su abbonamenti annuali scontati dell’80% non fosse sostenibile? Durante la liquidazione, fui acquistato da un tipo strano, uno di quelli con i calzini alti e le Nano ai piedi. Non lo sapevo ancora, ma stavo per entrare nel mondo del CrossFit.
Il trasloco nel Box fu come passare dall’asilo nido all’accademia militare. Improvvisamente, mi ritrovai circondato da persone che almeno sapevano cosa fosse unaostroke rate, anche se molti la confondevano ancora con il loro battito cardiaco. La differenza principale? Nel Box almeno si provava a fare le cose correttamente, anche se il risultato non era sempre dei migliori.
I CrossFitter si dividono in due grandi categorie: quelli che mi odiano e quelli che fingono di non odiarmi. I primi sono onesti, i secondi sono bugiardi. Ma almeno qui vengo utilizzato con un minimo di cognizione di causa, anche se devo ancora sopportare certi spettacoli durante gli Open che farebbero piangere il più stoico degli allenatori di canottaggio.
Ho visto atleti promettenti trasformarsi in bestie da competizione e principianti evolversi da “non so neanche da che parte sedermi” a “forse ho capito come funziona questa cosa”. Ho anche visto coach perdere anni di vita cercando di spiegare che no, non si deve tirare la catena come se si stesse cercando di accendere un tagliaerba.
Una volta che un tizio, durante un WOD con 2000m di rowing, ha cercato di battere il record mondiale di Concept2. Si è seduto, ha dato due strattoni alla catena come se stesse cercando di far partire una motosega inceppata, ed è crollato dopo 200m. Il suo split time? 1:35. Per esattamente 12 secondi. Poi è passato a quello che io chiamo “modalità sopravvivenza”, ovvero quella fase in cui realizzi che forse, ma proprio forse, avresti dovuto ascoltare quando ti spiegavano il concetto di “pace sostenibile”.
Ma devo ammettere che, nonostante tutto, qui almeno vengo mantenuto come si deve. L’olio sulla catena è sempre fresco, il monitor viene regolarmente pulito e il carrello scorre come se fosse su cuscinetti di seta. Non come in quella dannata globo gym dove l’unica manutenzione che ho ricevuto in quattro anni è stata una passata di straccio quando qualcuno dimenticava l’asciugamano sul carrello.
E poi ci sono i competitor, quelli seri. Li riconosci subito: arrivano presto, fanno il loro warm-up come si deve, controllano le impostazioni del damper, sanno cosa significa ed hanno quella luce negli occhi che dice “oggi si fa sul serio”. Questi sono quelli per cui sono stato progettato, quelli che capiscono che non sono un semplice attrezzo per cardio, ma uno strumento di precisione capace di misurare ogni watt, ogni caloria, ogni millisecondo del loro sforzo.
E poi ci sono loro, i canottieri. Quelli veri, intendo. Quando ne arriva uno in Box, lo riconosco subito. Non per come si vestono o per quello sguardo da “io-so-cosa-sto-facendo” che hanno tutti. Li riconosco dal modo in cui mi guardano: come un musicista guarda un vecchio Stradivari, con quel misto di rispetto e familiarità che solo chi ha passato migliaia di ore su un rower può avere.
Una volta è entrato un ex olimpionico. Si è seduto, ha fatto i suoi soliti controlli, damper, monitor, carrello, tutto con la naturalezza di chi sta indossando un vecchio paio di scarpe comode. Poi ha iniziato a remare. Gli altri si sono fermati a guardare, come succede sempre quando qualcuno mostra vera maestria in qualcosa. Era come vedere un valzer perfettamente eseguito: 1-2-3, gambe-schiena-braccia, braccia-schiena-gambe. Hipswing minimo, recupero controllato, potenza distribuita perfettamente attraverso la passata. Il mio monitor segnava split costanti al millisecondo, come un metronomo tedesco.
È in momenti come questi che mi ricordo perché sono stato costruito. Non per i WOD frenetici, non per i test del venerdì sera, non per i riscaldamenti frettolosi. Sono stato costruito per questo: pura, perfetta, metodica efficienza biomeccanica.
Ma la vita in un Box CrossFit ha i suoi vantaggi. Come quando arriva un nuovo atleta, tutto muscoli e sicurezza, che pensa che remare sia “facile”. Lo vedo salire sul carrello come se stesse montando su un cavallo imbizzarrito, afferrare la maniglia come se volesse strangolarla, e poi… ecco, diciamo che dopo 500m di quello che loro chiamano “sprint” ma che in realtà assomiglia più a un’imitazione di un gatto che cerca di sputare una palla di pelo, improvvisamente diventano molto più umili.
Ho visto coach passare ore a spiegare che no, il damper a 10 non ti fa bruciare più calorie, ti fa solo sembrare più stupido mentre cerchi di spostare aria come se stessi cercando di gonfiare un dirigibile con un ventaglio.
Dopo vent’anni, migliaia di chilometri e probabilmente abbastanza sudore da riempire una piscina olimpionica, ho imparato a rispettare questi strani esseri bipedi che continuano a torturarsi volontariamente su di me. Specialmente quelli che tornano, giorno dopo giorno, per migliorare. Quelli che hanno capito che non sono un semplice attrezzo per cardio, ma uno strumento di precisione che può insegnare più di quanto loro possano immaginare.
E sì, lo ammetto, provo un certo piacere perverso quando, durante gli Open, vedo questi atleti super pompati rendersi conto che forse, ma proprio forse, avrebbero dovuto dedicare un po’ più tempo a perfezionare la loro tecnica invece di postare selfie con #crossfitlife #nodaysoff #gowodyourself.
La cosa che mi rende più orgoglioso è pensare che dopo tutto questo tempo, dopo tutti questi atleti, dopo tutte queste ore di utilizzo, funziono ancora perfettamente. Non posso dire lo stesso di molti di loro.
E mentre sto qui, nel mio angolo del Box, osservando l’ennesimo gruppo di atleti che si prepara per l’ennesimo WOD, non posso fare a meno di pensare che forse, dopotutto, non è stato così male finire qui.
Quindi sì, continuate pure a salire su di me, a sudare, imprecare, gioire per i vostri PR e maledirmi durante i 2K test. Io sarò qui, come sempre, a fare quello per cui sono stato costruito: mostrare a ognuno di voi esattamente quanto siete efficienti… o quanto non lo siete.
E ricordate: potete anche non amarmi, ma almeno trattatemi con rispetto. Perché a differenza di voi, io non dimentico. E il monitor non mente mai.
Model D, matricola 20130215-0101-00000123
Sopravvissuto alla globo gym
Veterano del CrossFit
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