Si dice che l’essere umano sia l’unico animale in grado di contare. Non so chi l’abbia detto, probabilmente qualche filosofo greco con troppo tempo libero e una particolare predilezione per le ovvietà. Quello che so è che l’essere umano è sicuramente l’unico animale abbastanza stupido da inventarsi un workout in cui deve contare mille ripetizioni dello stesso, identico, movimento. E quando dico stupido, mi riferisco specificamente a quel sottogruppo di umani ancora più stupidi che decidono volontariamente di eseguirlo.
Oggi sono uno di quegli stupidi.
Mi trovo in quello che pomposamente chiamiamo “lo scannatoio”, un antro buio e polveroso che qualcuno osa definire palestra, pronto ad affrontare il WOD Chad: mille step-up su un box da 20 pollici con un giubbotto zavorrato da 10kg. Uno di quei workout “hero” che ti fanno seriamente dubitare non solo della sanità mentale di chi li ha inventati, ma anche della tua, per aver pensato che fosse una buona idea provarlo.
“Novantotto…” Alessandro scende dal box. “Novantanove…” salgo io. “Cento…” scende lui. Una danza sincronizzata, come due criceti che si alternano sulla ruota, solo con più sudore e meno pelo. Abbiamo deciso di alternarci ad ogni singola ripetizione, trasformando quello che doveva essere un hero WOD in una specie di balletto contemporaneo per due atleti e un cubo di compensato. La nostra è una scelta strategica che ha due effetti collaterali: ci metteremo il doppio del tempo previsto, ma almeno non perderemo il conto. Chi ha detto che i CrossFitter non sono strateghi?
Intorno a noi, i soliti habitué della sala pesi ci guardano come si guarda un incidente stradale: con un misto di orrore e morbosa curiosità. Un tizio con braccia grosse quanto le mie cosce – che con i loro 55 centimetri di pura ostinazione non sono esattamente un parametro da sottovalutare – scuote la testa mentre solleva il suo manubrio da 30kg per la centesima serie di curl bicipiti. Lo capisco, deve essere difficile comprendere perché due persone apparentemente adulte e vaccinate scelgano volontariamente di giocare a “tu sali, io scendo” per mille ripetizioni, quando potrebbero semplicemente ammirarsi allo specchio facendo pose da culturista di quinta categoria.
Verso la rep 600, qualcosa di strano accade. Il dolore diventa un ronzio di sottofondo, come quella musica techno che mettono nei centri commerciali: sai che c’è, ma hai imparato a ignorarla. Entriamo in una sorta di trance numerica, contando in ogni lingua che ci viene in mente, come se fossimo posseduti da uno spirito poliglotta con un feticismo per i numeri. La nostra alternanza è diventata così meccanica che sembra di guardare uno di quei vecchi orologi a cucù, solo che invece degli uccellini che entrano ed escono, ci siamo noi che saliamo e scendiamo dal box.
“Cinq cent quatre-vingt-dix-sept, fünfhundertachtundneunzig, petsto devetsto devet…” La nostra litania multilingue echeggia nella palestra, attirando sguardi sempre più perplessi. Ma ormai siamo troppo dentro questa cosa per preoccuparci delle apparenze. Siamo diventati una macchina binaria: su, giù, conta, respira, ripeti.
All’850, il momento che temevo arriva puntuale come una cartella esattoriale. Le gambe iniziano a mandare segnali inequivocabili di tradimento imminente, e il giubbotto da 10kg sembra essere diventato magicamente una zavorra da 50. È in questi momenti che capisci perché il CrossFit non è per tutti: non è una questione di forza fisica, ma di quella particolare forma di masochismo che ti fa pensare “tanto ormai manca poco” quando ti restano ancora 150 dannate rep da fare.
Ma la rivelazione arriva alla fine, quando quei powerlifter che ci guardavano male si avvicinano per congratularsi. Non tanto per il risultato in sé – che per loro probabilmente equivale a fare aerobica con Jane Fonda – ma per non aver mollato. C’è una strana forma di rispetto che si sviluppa tra atleti di discipline diverse quando riconoscono la dedizione altrui, anche se la considerano completamente insensata.
Finisco la serata in pizzeria, ancora grondante di sudore come se fossi appena uscito da una sauna finlandese. Il cameriere curdo mi guarda con lo stesso disgusto che riserverebbe a un senzatetto che è entrato per chiedere l’elemosina, ma francamente non potrebbe importarmene di meno. Ho bruciato 1280 calorie, ho il diritto divino di puzzare come un mammut appena scongelato.
La vera punizione arriva dopo, quando affronto la scala a chiocciola che connette i due piani di casa. Ogni gradino è un promemoria di quello che ho fatto al mio corpo, un’anteprima del concerto di dolori che mi aspetta nei prossimi giorni. Ma anche questo è CrossFit: quella particolare forma di follia che ti fa sorridere mentre soffri, sapendo che lo rifaresti di nuovo.
Perché alla fine, non sono i mille step-up che contano, ma tutti quei momenti in cui avresti potuto mollare e invece hai continuato a contare. Anche se, ammettiamolo, la prossima volta potremmo considerare l’idea di contare solo fino a cento. Ripetuto dieci volte suona molto meno intimidatorio.